La quarantena ci ha divisi più di quanto lo fossimo prima, fisicamente almeno. Spiritualmente è un altro paio di maniche.
Mi manca il bar. Nel mio bar preferito ci vanno molti tipi di persone. Il bar è uno dei posti più democratici che esistono. Là trovi l’attivista di sinistra che mette i dischi accanto alla segretaria del sindaco di centrodestra. Trovi l’amico colto insieme a quello che proprio la scuola non gli è mai andata giù. Trovi uomini e donne che hanno in comune nulla, tranne un caffè e un cocktail.
Dietro il bancone c’è una ragazzina da qualche mese. Si chiama Federica ed è una fan di Fedez. Il proprietario del bar la sfotte, le fa sentire i Queen e dice che non capisce niente di musica. Federica sorride, perché lei sorride sempre, di fronte a tutte le umanità.
Prima di lei c’era la Caty, che dal Portogallo è venuta qui a fare i cocktail. E li fa buonissimi, ma se vi invita a cena il suo cavallo di battaglia è il bacalhau. Caty è una di quelle persone con cui è facile fare amicizia, perché sa ascoltare i tuoi deliri alcolici. Così come il proprietario, anche se qualche volta s’incazza e ti manda a quel paese (che poi non si è mai capito a quale paese). Però a volte fa bene. Mi hanno raccontato di una volta che ha buttato fuori dei clienti perché poco rispettosi nei confronti degli altri. Non lo so se è vero o se è una leggenda metropolitana, ma è sicuramente verosimile. È nel suo stile.
Il bar è il primo luogo in cui vado appena torno al paese (che non è quel paese, ma poco ci manca). E appena torno c’è un bicchiere con Martini rosso senza ghiaccio. La routine è sempre la stessa. Mi siedo a scrivere e a un certo punto arriva Alfredo, con il cane Doc, dopo aver chiuso la libreria. Poi arriva il veterinario che abita giù all’angolo della strada, anche lui alla fine del lavoro. E mio cugino Gigi, che è un libero professionista di tubi. E Paolino, che torna a casa entro le 22 perché la mattina si deve alzare presto per andare in fabbrica.
A volte c’è musica dal vivo al bar. L’ultima volta, a Natale, Marco, che di giorno fa il giornalista, suonava Bob Dylan. C’è un piano sul muro in fondo e tanti anni fa, un altro Marco ci suonava sopra mentre Paolo, che normalmente è uno stimato psicologo, leggeva Piazzale Caiazzo, Milano, Los Angeles.
Il bar è l’ombelico del mondo. È come Gerusalemme nella visione dantesca, poi sotto al bar ci sono i nostri demoni interiori, ma sono sopiti in superficie, allagati da un mare di spritz e gin lemon.
E io credo che torneremo a navigare – naufragare direbbe Paolo lo psicologo – in quelle acque, prima o poi. Ma ora lasciatemelo dire: mi manca il bar.
(In foto, il dramma di chi consuma un bicchiere sul suo balcone solitario).