Il Salento lento è uno stato d’animo, anche durante la Fase 2 del Covid 19.
A me sembra spesso tutto frenetico, perché sono abituata a vivere così, alternare i momenti di lavoro alle cose da fare, al tempo da trascorrere in famiglia, con gli amici. Tornare in Salento dopo sei mesi ti cambia però un sacco di prospettive.
La paura del virus c’è. È un po’ strisciante, talvolta da clima da caccia all’untore. Per il resto sei tu che hai paura. Vorresti abbracciare le persone, tenendo su la mascherina, ma è davvero troppo complicato, emotivamente complicato: come reagiranno gli altri? avranno paura di te? si ritrarranno? è una cattiva idea? Vai in un bar e tieni le distanze, le trattorie prendono le tue generalità. Però in spiaggia è tutto quasi normale, non so se è perché le nostre spiagge sono davvero minuscole o perché il mare comporti la sospensione del buon giudizio.
Il coronavirus ci ha innegabilmente privati di una parte della nostra socialità, eppure ci sono cose che non cambiano. Ci sono gli amici che ti vogliono bene, c’è la mamma, la zia, tuo cugino, e poi c’è anche dell’altro. C’è il vino, la frisella, c’è il mare. Ma anche quell’odioso periodo accademico. Un periodo che non è in vigore solo nelle università (che credo essere chiuse in questo periodo): in pratica si tratta del ritardo cronico dei salentini. Per cui, perfino dal dottore, dove in altre parti d’Italia ci si presenta spaccando il minuto (come dovrebbe essere sempre e non solo in momenti d’emergenza come questo), si ritarda. Unico puntuale è il parrucchiere, che, dopo aver lavorato come un novello San Gennaro sulla mia chioma per tre ore si scusa pure: ha dovuto alzare il prezzo. Neppure di tanto in realtà, parliamo di pochi euro. E comunque non avrei dovuto pagarlo, ma finanziare la messa in opera di una statua col suo ritratto. I miracoli avranno pure un costo, ma è un po’ come la scommessa su Dio.
Nelle scorse settimane, prima di rientrare, quando ancora non sapevo se avrei potuto tornare da mia madre, mi ha presa lo sconforto. Ho sempre sognato di vivere in una grande città, di essere vicina al fermento culturale, ai concerti, al teatro, ai musei, e ora che ci sono così vicina, che faccio? Sento la mancanza del paesello.
È bizzarro. Ho sempre pensato che il Salento mi stesse stretto. Forse è che sei mesi sono tanti, soprattutto se parte di essi li vivi in lockdown. O forse è che, nemmeno avevo posato le valigie per terra, in casa della mamma c’era un profumo incredibile di “cozze piccinne” e origano.