Non so voi, ma io non credo che siamo migliorati durante il lockdown: nel migliore dei casi siamo rimasti le stesse orribili persone di prima.

Vi racconto una storia. Anzi due. Nei giorni scorsi sono stata in provincia di Lecce per varie ragioni, affettive e lavorative. Tra le varie cose che ho fatto, sono andata in una struttura ricettiva, una piccola piscina in cui vado da anni, in compagnia di vari amici, tra cui due bambini piccoli, che ovviamente non vedevano l’ora di bagnarsi i piedini. All’ingresso, il proprietario della struttura, benché non mi conoscesse, non sapesse il mio nome né nient’altro, mi ha accusata di aver scritto una recensione negativa sulla struttura «anni prima». Ognuno di noi ha ricchezze differenti, ma ognuno di noi ha la stessa in forme diverse: il proprio nome, ovvero la reputazione. Non lo dico io, eh, ma dubito che il mio interlocutore abbia mai letto Shakespeare.

C’è stata poi la storia della coda. Ero in fila per uno spettacolo teatrale, nei giorni successivi. Mi sono sorpresa a pensare agli inglesi e come quel popolo abbia una vera e propria «cultura della coda». Così, mentre cercavo di tenere il giusto distanziamento con altre persone in coda, sono arrivate due donne su un’auto, saltando a pie’ pari tutte le persone in fila da me in poi. In altre occasioni avrei discusso, ma queste persone sono riuscita a inquadrarle nel giro di pochi secondi: avrei solo causato problemi agli organizzatori se mi fossi messa a discutere con loro. Oltretutto tutti gli altri in fila – e non erano pochi, tanto più che lo spettacolo era sold out – sono stati civili, silenziosi, ordinati, rispettosi.

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A un certo punto, queste donne, raggiunte dai mariti, sono dovute uscire dalla fila per poter compilare un’autocertificazione (che invece io avevo preparato a casa): invece di intasare la fila, l’ho fatta scorrere. Con la coda dell’orecchio ho percepito queste persone minacciare di far scorrere il sangue. Letteralmente. Tanto che c’è stata una loro chiosa del genere «gli ospedali sono fin troppo pieni». Pensare che eravamo in fila per il teatro, per andare a vedere una piece di un’umanità incredibile, che parla dell’orrore e della malvagità, dello spirito di sopravvivenza e dell’amore che dovrebbe vincere l’odio. Ve ne parlerò diffusamente a breve, magari mi leggono pure questi tizi, perché non sono certa, a questo punto, che ci abbiano capito nulla dalla messa in scena.

Quando è iniziato il lockdown, sembravamo essere tutti ottimisti e fiduciosi. Ci facevamo le nostre tragiche cantate al balcone, acquistavamo compulsivamente lievito e disegnavamo arcobaleni con i nostri figli. L’isolamento dagli altri ci ha fatto illudere di essere tutti brave persone. E invece non lo siamo. E ora che siamo tornati a farci vedere in giro, socialmente parlando, emerge di prepotenza il fatto che siamo brutti e cattivi.

Non tutti, eh, ovvio. Ma questi due episodi sono stati per me così stridenti, forse perché non uscivo da prima del lockdown o forse perché davvero mi ero illusa che potessimo migliorare. Ma cosa posso pretendere, se c’è gente in giro che ritiene il coronavirus un’invenzione massmediatica? Insomma, nelle ostriche degli esseri umani perle non ce ne sono.

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