Lo so che quest’anno non si fa il cenone di Natale, quindi questo non sarà esattamente un intervento a tema cibo.
Per me, questo strano Natale sola con le persone con cui vivo non fa una grande differenza. Sono solo due i famigliari che, se non ci fosse stato il Covid-19, avrei incontrato, ma abbiamo preso la decisione matura (loro) e ipocondriaca (mia) di restare ognuno a casa propria, e quindi niente: ho già preparato un simil casatiello (chiaramente non mi sono neppure sforzata di cercare la ricetta originale), e ho predisposto un cocktail di gamberi decisamente cafonal, della pasta Cavalieri con fasolari e sugo di pomodori freschi e una mega spigola. Ah, e nel frigo da ieri c’è una bottiglia di Piccole Bolle Duca Guarini rosato.
Il mio paese mi manca moltissimo, ma anche se fossi tornata, forse non avrei comunque visto gli amici per essere prudente. Ho visto, dalle foto sui social, che in piazza c’è un albero molto bello, anche se, be’, preferivo quello dell’anno scorso, ma credo di poter dire che sono entrambi stupendi in modi diversi (a pari merito con quello di qualche anno fa che sembrava un enorme ricamo a punto ago).

Si dice che il Natale sia un periodo duro per chi subisce delle perdite significative. Io credo che la ragione sia nel cibo. Il cibo che cuciniamo è un modo per dire alle persone che vogliamo loro bene. Quando cucino l’insalata di riso o il pollu cusutu ‘nculu mi capita sovente di pensare a delle persone a cui voglio oppure ho voluto bene. Mi capita più spesso con gli alimenti che vengono dal mare, dato che preferisco pesci, crostacei e mitili.
In passato mi è successo poi, in serate come questa, di “lottare” (in senso metaforico) con il padre del mio compagno: mentre lavavo cozze nere o friggevo mozzarelle in carrozza non potevo distrarmi o, dopo le sue incursioni, non sarebbero mai arrivate a tavola. Mi manca, come mi manca il mio papà che è scomparso in questi giorni 5 anni fa.
Per tutta la vita non sono andata troppo d’accordo con mio padre, ma negli ultimi anni le cose erano un po’ cambiate. È quello che accade quando cresci e cerchi di capire su cosa puoi passare oltre e cosa invece è qualcosa di imperdonabile. E quanto vuoi bene alle persone che credi ti abbiano fatto un torto. Per questo io non dimenticherò mai le parole che mio padre diceva (rigorosamente in dialetto, ma traduco) ogni Natale. Ogni Pasqua. Ogni San Martino. Ogni volta che la mamma cucinava l’agnello.
Questo non è agnello. È agnellone.
Buone feste. Tenetevi strette le persone che amate, anche a costo di abbracciarle solo quando la pandemia sarà un ricordo.
