Siamo stati a teatro a vedere la prima nazionale di “Rita” con Massimo Giordano e Giulia Innocenti. E abbiamo riso e pianto parecchio.
C’è qualcosa di molto magico in un palcoscenico vuoto che attende i suoi attori. C’è l’aspettativa del pubblico, c’è forse un po’ di ansia. Dopo il Covid c’è una sorta di sorpresa, per le persone scarsamente socievoli come me un po’ di imbarazzo. Però il teatro c’è e, come tutta l’arte, ha la capacità di elevarti e farti sprofondare. È in grado di coniugare due opposti, ma al tempo stesso non è binario, non è una sequela di 0 e 1, ma invece assomiglia di più a una pietra grezza con le sue sfaccettature e una volta che cala il sipario si trasforma in un diamante.
Così non dobbiamo stupirci di tutte le emozioni che proviamo mentre gli attori sono in scena. Succede in particolare quando la piece, coniugando universalità di un’opera e talento attoriale, riesce a individuare una tematica che colpisce nel profondo. Siamo tutti pronti a sbracciarci per un sostenere determinati diritti – affinché le persone abbiano la possibilità di scegliere, sempre – ma quando quella scelta capita a noi in prima persona, non è così semplice polarizzarsi. O forse sì, come due fratelli che sono l’opposto, e talvolta l’opposto dell’opposto.
Parla di scelte “Rita“, piece scritta da Marta Buchaca, e messa in scena lo scorso agosto in prima nazionale dagli attori Massimo Giordano e Giulia Innocenti, rispettivamente i protagonisti Toni e Julia, all’interno del festival teatrale Chiari di Luna, diretto dallo stesso Giordano.
All’interno di una scena spoglia, perché tutta l’attenzione è sul movimento, l’espressione, le parole, si consuma la parabola di due esseri viventi. Non quelli sul palcoscenico, ma due che mai si vedono, eppure sono sempre presenti (la morte incombente in fondo è per tutti un’assenza che sottolinea una presenza): un cane e una donna che si chiamano tutti e due Rita, come in una bella canzone scritta, come gran parte di Sgt. Pepper’s, da Paul McCartney. Rita e Rita sono entrambe malate, entrambe incapaci ormai di godersi anche una piccola cosa. E impossibilitate a scegliere da sé. L’eutanasia, la sedazione profonda per i malati terminali, il suicidio assistito sono temi di grandissima attualità in Italia. E possiamo parlarne allo sfinimento dal punto di vista politico o etico. Ma, appunto, tutto cambia quando la questione ti tocca. Riusciamo a lasciar andare? Riusciamo ad avere pietà? E, se lo facciamo, a che prezzo?
Non aspettatevi risposte da “Rita“. È giusto così. È il ruolo del teatro portarti all’interno di qualcosa che forse hai esaminato prima solo in maniera superficiale, o a livello di massimi sistemi. Che si tratti di un essere umano o di un animale, questa scelta non è mai facile. E qualunque risposta uno si dia non è mai valida per tutti e per tutte le situazioni, tranne, penso, nei casi in cui si possa parlare di accanimento terapeutico. Ma anche questi casi è difficile comprenderli, soprattutto se ci stai dentro.
Siamo numeri, siamo leggi. Ma non siamo né numeri né leggi. Dietro la statistica e il diritto ci sono le persone, persone che hanno un vissuto, ricordi, affetti. Non sempre è facile afferrare in tempo. Forse a ognuno di noi, a ognuno in quella platea, può essere capitato di affrontare un simile dilemma dal punto di vista individuale, segreto, intimo. E possiamo star certi che l’esito non è mai stato lo stesso per nessuno.
Per questa ragione lì, sotto le stelle di un teatro all’aperto, le persone hanno sorriso dei ricordi, dell’amore, dell’affetto fraterno, delle relazioni. Ma poi sono scesi fiumi di lacrime. Perché nella vita affrontiamo diversi sipari. Ma per quell’ultimo sipario non siamo affatto pronti.