Ho visto Enzo Jannacci – Vengo anch’io: documentario su un genio che ci manca tanto.

Ho un ricordo molto lontano della prima volta che ho visto Enzo Jannacci in tv. Non ricordo la canzone che stava cantando, ma ricordo quella risata un po’ inquietante ma trascinante. Quando sono cresciuta, ho conosciuto lo Jannacci cineasta, non solo per la realizzazione delle colonne sonore, ma per via di un film surreale come Saxophone e quel primo episodio assolutamente nonsense di Io tigro, tu tigri, egli tigra. Poi è arrivato Gran bollito, che è una pellicola pazzesca ispirata alla Saponificatrice di Correggio e si apre con una canzone che Jannacci ha scritto per Mina, e contiene una performance di Renato Pozzetto di Libelà e poi, quella scena spaventosa e struggente con La mia morosa la va alla fonte.

Quando sono diventata madre, una delle prime canzoni che mio figlio ha imparato, dopo quelle di David Bowie, è stata Ho visto un re. Ancora ci ride quando enumera tutte le cose che hanno tolto al vilàn («La casa, il cascinale / La mucca / Il violino / La scatola di cachi / La radio a transistor / I dischi di Little Tony / La moglie / E po’, cus’è? / Un figlio militare / Ah beh, sì beh / Gli hanno ammazzato anche il maiale / Pover pursel / Nel senso del maiale»), anche se non sa cosa sia né una radio a transistor né chi sia Little Tony. Per me era un modo per divertirlo, e non pensavo che Jannacci lo avrebbe fatto ridere sempre, quando vediamo quel video di quel medico bizzarro che pattina per Milano cantando Silvano, quando racconta la vicenda tragica de L’Armando, quando parla di esclusione in un mondo che si riempie la bocca di inclusione con Vengo anch’io (no, tu no).

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Credo che sia questa l’essenza di Jannacci, il grande genio che viene descritto appunto in Enzo Jannacci – Vengo anch’io, l’essere transgenerazionale, la capacità di arrivare al cuore delle persone attraverso una risata, ma al tempo stesso riproporsi in diverse fasi della tua vita e avere un significato sempre diverso.

Ho trovato questo documentario estremamente commovente, in particolare, ovvio, quando a parlare è il figlio Paolo Jannacci. Non riesco a immaginare cosa sia potuto essere per lui avere l’opportunità di crescere con una persona così intelligente e creativa, e al tempo stesso diventare intelligente e creativo lui stesso. Ma non mancano le voci, da quelle più “scontate”, in un certo senso, di Cochi Ponzoni, Paolo Rossi e Diego Abatantuono per esempio, a quelle di persone che forse mai si immaginerebbe di associare all’opera di Jannacci, come Vasco Rossi.

La storia della musica, quando la si guarda attraverso la lente di Jannacci, non è monolitica, ma si incrocia inevitabilmente con il teatro. E quest’uomo incredibile si muoveva attraverso le vite e le apparizioni e le performance dei suoi colleghi, restando unico. C’è un immagine precisa, nel documentario, ovvero la sigla di Canzonissima, in cui Jannacci viene descritto fuori canone: in un’Italia precisina, lui era capace di fare ciò che davvero non ti aspetti e al tempo stesso ciò di cui hai bisogno in ogni momento della tua vita.

Anche oggi, anche domani. Perché quella risata inquietante e trascinante è davvero senza tempo. E recuperare l’umanità significa entrare in quella risata e arrivare con il cuore al cuore delle cose. Che la cosa sia un senzatetto che muore nell’indifferenza, o che sia la filosofia spicciola di una legge di Murphy ante litteram.

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