Insieme a Paolo Virzì – che tra l’altro appare, insieme a Paolo Sorrentino, nel suo film che più amo – Nanni Moretti è probabilmente il mio regista preferito, anche se devo colmare alcune lacune.

Finalmente ho visto gli ennesimi (perché dire ultimi mi pare brutto) film di Nanni Moretti: Tre piani e Il Sol dell’Avvenire. Ed è stato bellissimo. Si tratta di due pellicole abbastanza tipiche per il suo cinema (sebbene, non ricordo chi, mi abbia definito Tre piani atipico): da un lato c’è il film drammatico puro, come in fondo era stato La stanza del figlio, dall’altro c’è un pezzo profondo dell’anima del regista, com’era accaduto in Aprile, Caro Diario e forse in sue opere maggiormente di formazione, come Io sono un autarchico ed Ecce Bombo. Per me è stato come ritrovare un vecchio amico che non ho mai conosciuto – sebbene abbia incontrato Moretti a una meravigliosa proiezione di Santiago, Italia al Db d’Essai di Lecce.

Mi piacerebbe moltissimo che fosse Nanni Moretti a governare l’Italia. Perché lui ha una capacità, similmente a Virzì ma anche di più, di analizzare i fatti, la storia, il presente, la società. Virzì riesce a regalarmi il sogno di un mondo migliore, mentre Nanni Moretti è sì in parte utopista, ma al tempo stesso rende tangibile quell’utopia, la riversa nell’oggi e ti dice: un mondo migliore esiste, non per un senso di redenzione, che è da morale cattolica, ma perché l’umanità può essere illuminata nel profondo. Può portare quell’illuminazione all’esterno. Forse anche quello di Moretti è un sogno, però è così confortante che dà l’idea che stia accadendo per davvero – in fondo il regista ha previsto, nella sua lungimiranza, molte cose che poi sono accadute.

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Tre piani

Tre piani mi ha ricordato, nel suo incontro casuale di umanità in un microcosmo, due film americani che amo molto: America oggi di Robert Altman e Magnolia di P.T. Anderson. Fondamentalmente la storia parla di tre appartamenti: al piano terra una coppia con una figlia, che viene affidata ai vicini anziani, e un giorno l’uomo della coppia anziana scompare con la bambina, il padre di questa teme sia un pedofilo e ha un rapporto con la nipote minorenne dell’anziano per la sua ossessione di scoprire cosa sia accaduto; al primo piano c’è una donna che ha da poco partorito e ha una storia famigliare di malattia mentale, per la quale si preoccupa molto poiché il marito è sempre via; sull’attico abita una coppia di magistrati con il figlio, che avverte tragicamente il rigore e le regole imposte dal padre. Gli eventi si svolgono in un arco di dieci anni, con salti ogni cinque.

Quello che emerge è proprio l’ineluttabilità degli eventi, il modo in cui questa umanità cerca di opporsi alle cose, provando a fare la cosa giusta (ma non sempre) e soprattutto non sempre riuscendoci. Ci sono tre personaggi, in particolare, che si scontrano contro qualcosa e falliscono parzialmente o totalmente. C’è Lucio (Riccardo Scamarcio) che è convinto che la figlia sia stata molestata o addirittura violentata dal vicino, ma i suoi tentativi di arrivare alla verità sono violenti o truffaldini e solo alla fine di un difficoltoso iter giudiziario e umano riuscirà a scoprire cos’è accaduto. C’è Monica (Alba Rohrwacher) che chiede insistentemente aiuto per la sua incipiente malattia mentale che nessuno riesce a capire, ma alla fine si arrende a essa. C’è Dora (Margherita Buy) che non riesce a ostacolare la rigidità del marito Vittorio (Nanni Moretti) nei confronti del figlio, almeno finché Vittorio è in vita e il figlio non compie un percorso di consapevolezza inevitabile.

Ed è come se questo microcosmo sia ovattato, silenzioso nonostante la colonna sonora. Come quei palazzi in cui si nascondono le storie, ma hanno porte e finestre chiuse, come a chiudere il mondo fuori perché incapaci di affrontarlo davvero. Moretti descrive una parte di noi, del modo in cui siamo con le nostre paure, con le nostre aspettative, con la nostra ricerca di una felicità cui siamo incapaci di approcciarci facilmente.

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Il Sol dell’Avvenire

Il Sol dell’Avvenire è un film pieno di musica e di balli. Ma, purtroppo o per fortuna, non è il musical sul pasticciere trotzkista che noi fan ci aspettavamo. È qualcosa di completamente nuovo e al tempo stesso antico: è la summa di tutti i film di Moretti, con una struttura narrativa autobiografica. Al centro c’è infatti un regista, interpretato dallo stesso Moretti, che cerca di girare un film molto costoso su un fatto storico: l’Ungheria che si oppose al regime stalinista. E nel girarlo acquista una serie di consapevolezze, tra cui l’utopia di un Partito Comunista Italiano che, alla base e nei direttivi, abbia rifiutato l’Unione Sovietica. Immaginate quella poesia di Aldo De Jaco in cui lui racconta di aver rifiutato il caviale, e fatelo su ampia scala. Come se tutte le sezioni italiane a un certo punto avessero preso coscienza degli orrori dello stalinismo e abbiano voluto ribellarsi. Un atto d’amore verso una filosofia, quella di Marx ed Engels, che professava amore.

Ma anche un atto d’amore per il cinema: dentro c’è un po’ di tutto – compresa una parata finale con gran parte degli attori che hanno preso parte ai suoi film – il cinema di Moretti. C’è Il Caimano con una relazione in crisi, ci sono le “parole importanti” di Palombella Rossa, c’è il giro per Roma di Caro Diario, ci sono le canzoni – Battiato, De André, Noemi, anche se forse mi aspettavo anche Caterina Caselli – c’è, come dicevo, il conforto, la lungimiranza, un senso di pace che pervade e commuove, specialmente sul finale in crescendo, a partire dal balletto dei dervisci che non sono dervisci (come nella canzone di Battiato). C’è Moretti, e averlo è un grande dono.

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