Abbiamo visto “Le terre incolte”, nuovo lungometraggio di Mattia De Pascali: una pellicola di difficile collocazione in quanto al genere, ma con un personaggio forse ispirato da “Non si sevizia un paperino”.

È un fantasy oppure un horror? Una critica di impianto politico o un’opera mistico-grottesca? Le etichette mal si addicono a “Le terre incolte“, nuovo lungometraggio di Mattia De Pascali, regista indipendente pugliese che dà ancora una volta prova di talento in una storia che è anche di difficile collocazione spaziale o temporale.

Ci sono ottimi dialoghi – sia dal punto di vista linguistico che sul piano del vero – c’è la Puglia, il Salento – se uno sa riconoscere i luoghi, ma non è per niente facile – ci sono dei costumi insoliti – la gonna in velluto marezzato della Strega, la collana di denti di lupo di Tore, personaggio che sembra uscito da “Il signore delle mosche“, coppole, gilet e bretelle che anche i drughi di Kubrick indosserebbero volentieri – ci sono gli innumerevoli punti di contatto con altre opere che il cinefilo nell’era di internet troverebbe ma che in realtà non sono voluti – il genere western, anche se dovremmo chiamarlo eastern, in generale, e quell’Ape Cross che sfreccia nelle prime sequenze e che «doveva essere rossa», forse anche per contrasto con i colori del tufo da cui escono le persone «come numeri sulla faccia di un dado».

L’unica fonte di ispirazione probabilmente reale è però “Non si sevizia un paperino” di Lucio Fulci. C’è infatti tra le due opere un punto di contatto non da poco: la Strega come capro espiatorio di un male diverso e più grande. Nel film di Fulci era Florinda Bolkan, in quello di De Pascali è Donatella Reverchon, che appare in scene di grande impatto visivo, deus ex machina della trama (in tandem, però) e credibile per quanto riguarda la sospensione dell’incredulità. La Strega tratteggiata da De Pascali è infatti una donna emarginata, una «barbona», la cui vera identità viene svelata alla fine del film.

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Ho un po’ di remore a scrivere troppo sulla trama, perché temo di fare spoiler. Vi accenno solo dell’inizio. “Le terre incolte” inizia con un nonno e un nipotino che vanno a caccia, ben attenti a non penetrare appunto in un territorio proibito, le cosiddette terre incolte, non un confine con il mondo esterno, bensì un diverso spazio misterioso. Durante la caccia, il bambino scopre il corpo maciullato del parroco: da qui partono una serie di interrogativi dei compaesani, che però culminano in un’escalation di orrore, che porta alla psicosi collettiva, una psicosi che si traduce, come spesso accade in questi frangenti, nella ricerca di un capro espiatorio da incolpare e di un eroe che salvi il paese.

In un coro di voci che si intersecano e si susseguono, mentre la psicosi prende il sopravvento su scelte tutt’altro che furbe, è il femminino a prevalere, un femminino materno nel senso più ampio del termine e che ha vedere con voci inascoltate. Tra fiumi di sangue e budella, che si mescolano con il rosso della terra e il verde degli alberi, emerge la consapevolezza di una scoperta, non di una redenzione.

2 commenti

  1. Si dovrebbe evidenziare e sottolineare che parliamo di cinema d’autore senza fondi se non quelli privati, il vero cinema indipendente.

    Complimenti!

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Scrivi una risposta a Gabriele Recchia Cancella risposta