Il 9 giugno, la serie tv Mad Men non sarà più nel catalogo italiano di Netflix: ecco perché vale la pena vederla prima che sia troppo tardi.

Non ho visto Mad Men dal primo momento, ma mi sono rifatta ampiamente in corsa. Ricordo però come fosse ieri il servizio che Vanity Fair dedicò al suo lancio, con una grande foto con Jon Hamm, January Jones, Elisabeth Moss, Vincent Kartheiser, Christina Hendricks e John Slattery. Lessi delle difficoltà di Hendricks, fino a quel momento, di sfondare come attrice: la sua fisicità cozzava con i modelli androgini che lo showbiz ci propone da alcuni decenni. Ma alla fine, a quanto pare, tutti si sono accorti di quanto sia una donna meravigliosa e soprattutto di quanto sia un’attrice fantastica.

La trama

La storia di Mad Men è ambientata in un grande studio pubblicitario di Madison Avenue a New York e racconta le vicissitudini, lavorative, sentimentali e famigliari di chi in quello studio ci lavora. Le vicende sono ambientate in un periodo molto complesso, fatto di cambiamenti, per gli Stati Uniti. Si parte dalla fine del 1959 e si arriva al 1970. Nel mezzo ci sono due o tre elezioni presidenziali, lo sbarco alla Baia dei Porci, l’assassinio di John Kennedy, quello di Malcolm X, quello di Martin Luther King e quello di Bob Kennedy, le proteste studentesche, la guerra in Vietnam, l’integrazione razziale. E quasi alla fine lo sbarco sulla Luna.

Il senso profondo delle cose

Mad Men (e qui cominciano gli spoiler, per cui non continuate se volete vedere la serie) rappresenta i dubbi, le istanze e l’alienazione dell’uomo (e della donna) moderno negli Stati Uniti. Per questo la serie è ricca di metafore che rappresentano questi cambiamenti: Megan regala a Don Draper Revolver dei Beatles, Peggy Olson combatte per l’affermazione delle donne come lavoratrici proprio come accade per gli uomini (ma finisce lei stessa per essere madre naturale e “madre” part time per il suo vicino di casa), Michael Ginsberg, nato in un campo di concentramento, impazzisce per l’avvento dei computer, Harry Crane accompagna con lo sguardo l’ascesa del Quinto Potere.

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Le metafore sono via via più palesi mano a mano che si va avanti. Nella settima stagione Bertram Cooper, fondatore dell’agenzia, muore, nel giorno dello sbarco sulla Luna. Il balletto finale del suo fantasma è un chiaro riferimento al nuovo mondo che si spalanca e alle possibilità per i giovani (poco prima Peggy annuncia di essere riuscita ad accalappiare la Burger Chef nel suo portfolio clienti). Lo stesso brano che Bert canta – un classico di Broadway The Best Things in Life Are Free – è un chiaro invito a contrastare il consumismo, che rappresenta un fenomeno importante per chi è impiegato nel mondo della pubblicità.

Questo ci fa arrivare al finale. Nelle ultime sequenze dell’ultima puntata vediamo come procederanno le vite di tutti i protagonisti. Don in particolare “partorisce” lo spot della Coca Cola in una comune. La storia di quello spot – che in effetti nacque in seno alla McCann-Erikson – è stata conosciuta dalle giovani generazioni proprio grazie all’episodio di Mad Men. Il suo autore era su un volo in avaria, che fece un atterraggio d’emergenza sulle colline umbre – e lì fu anche girato – ed ebbe la visione di tanti giovani da tutto il mondo che cantavano insieme. In quel momento nessuno poteva comprenderlo appieno: è il primo attimo in cui la globalizzazione, il mondo globalizzato, diventa qualcosa di palese. In pieno spirito Coca Cola, che, essendo una multinazionale, ce ne avrebbe mostrato entrambe le facce, quella positiva e quella negativa del fenomeno.

Peggy, Joan, Betty, Sally e le altre

Mad Men dovrebbe parlare di uomini (almeno in base al titolo) e invece parla di donne, della loro ascesa, delle loro conquiste. Se Sally Draper cresce mano a mano insieme alla serie e noi scopriamo una giovane donna bellissima e acuta (interpretata da Kiernan Shipka, che oggi si ritrova icona del femminismo della Terza Ondata grazie a Sabrina Spellman, diretta discendente di Buffy Summers), per Betty Draper Francis le cose si evolvono in maniera diversa: passa da casalinga disperata (come pure scrisse in quel servizio che cito all’inizio Vanity Fair) a donna che vuole far sentire la propria voce. Un’altra delle donne la cui voce è forte è limpida è Joan Holloway Harris, che passa dall’essere l’amante del capo a socia dello studio pubblicitario: per farlo deve però accettare di essere calpestata dal mondo degli uomini, in molti sensi.

Il personaggio femminile più interessante è però Peggy, la cui evoluzione si mostra in modalità anche fisica (taglio di capelli e look). Fin dal primo momento, benché Peggy cerchi di adattarsi a quel mondo di uomini («Perché ogni volta che un uomo ti invita a pranzo ti scambia per un dessert?»), proprio non ci riesce dal primo momento e si fa portavoce di una lotta per la parità che sia innanzi tutto sentimentale, ma anche e soprattutto lavorativa. Il suo ingresso alla McCann-Erikson è epico, con tanto di originale di Hokusai (appartenuto al defunto Bert) sotto il braccio.

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