Non vado pazza per il cinema di Tim Burton, ma Big Fish è un piccolo grande capolavoro.
Credo che ci sia stato un periodo della mia vita, tra l’adolescenza e l’età adulta, in cui devo aver apprezzato Tim Burton. Ci sono delle sue pellicole che apprezzo ancora in effetti: sicuramente Beetlejuice (con la mia adorata Winona Ryder), il biopic Ed Wood, il musical Sweeney Todd e il remake Dark Shadows. Ma se dovessi nominare un film di Burton che ho nel cuore, be’, c’è solo Big Fish.
Forse è perché adoro i film che parlano di genitori e figli. Big Fish è una serie di storie dentro a una storia più grande, quella di un venditore che è abituato da sempre a narrare episodi fantasiosi, attribuendoli alla propria vita. All’inizio, al figlio piacciono le storie del padre, poi non più: sono troppo incredibili e il figlio finisce per fare il giornalista e raccontare altre storie che siano sicuramente vere. Pian piano, tra padre e figlio si apre uno iato incolmabile, benché il padre cerchi solo di farsi accettare dal figlio. Finché il padre non è sul suo letto di morte e ricomincia a raccontare la storia della sua vita, tra streghe, giganti, viaggi pericolosi, città incantate, fughe rocambolesche, gemelle siamesi, una certa intraprendenza e una specie di seconda famiglia. Una specie, sì, perché il padre non tradisce mai la moglie, conquistata faticosamente e amata ogni giorno. La parabola si conclude con un funerale di nani e ballerine, in cui il figlio finalmente capisce: il padre gli ha raccontato delle storie abbellite quel tanto da risultare più affascinanti, ma sono tutte vere.
Per Big Fish, Burton ha sfoderato come sempre un cast incredibile: Ewan McGregor, Billy Crudup, Jessica Lange, Helena Bonham Carter (con due personaggi differenti), Marion Cotillard, Danny De Vito e Steve Buscemi. In più c’è per qualche minuto in scena anche Miley Cyrus, quando ancora non era diventata Hannah Montana.
Big Fish è una bella fiaba che apre la speranza della redenzione: non c’è rapporto umano che non si possa sanare, in cui ci si possa incontrare a metà strada, e magari salutarsi per sempre con un sorriso: basta volerlo. Il tema centrale è però quello del pesce troppo grosso per un piccolo stagno, ossia la metafora di un uomo che è destinato a cose troppo grandi per una piccola città. Guardando questo film viene voglia di unirsi al circo, di redimere un rapinatore di banche, di ordire un intrigo internazionale e far terminare una guerra. Perché, in fondo, cosa rende una vita davvero interessante da vivere?
Le scenografie e le musiche, come sempre per i film di Burton, fanno da cornice a completezza di una storia che necessita di dettagli. Perché è in fondo quello che fanno i cineasti: raccontare storie incredibili e farle passare per vere. Ma poi a chi importa davvero la verità? Ai giornalisti, certo, ed è giusto che sia così. Ma al cinema si può raccontare qualunque cosa abbia delle ragioni intrinseche di fascino.