Ho visto Hollywood, la nuova miniserie Netflix firmata da Ryan Murphy e Ian Brennan. Queste sono le mie considerazioni. (Spoiler alert: se non avete visto la miniserie, non continuate la lettura).
Come ogni opera di Ryan Murphy, anche Hollywood è queer oriented. Vederla mi ha portato a una vecchia riflessione che feci tempo fa. Dei conoscenti realizzarono, in veste di attori o producer, per conto di ArciGay nazionale una campagna che trovai molto interessante. La campagna si concretizzò in un video in cui ogni scena iniziava con la frase «premesso che ho molti amici gay». All’epoca il video mi fece pensare a questa frase, che è molto ricorrente tra conservatori e reazionari ogniqualvolta spunta un discorso relativo a parità di diritti per le persone o le coppie lgbtqai*. I reazionari tirano spesso fuori questa frase, adducendo che i propri amici gay non siano favorevoli a nozze, adozioni e gravidanza per altri. Non è che mentono, ma non è improbabile che gli amici gay dei reazionari siano conservatori a propria volta per cui non dovrebbe stupirci che siano contro alla parità di diritti.
Un’altro argomento di cui sento parlare spesso i conservatori riguarda l’esistenza di una presunta lobby gay, soprattutto nel mondo dello spettacolo. Molti artisti, dagli omosessuali ai pansessuali, da Freddie Mercury a David Bowie, sono passati alla storia non per il loro orientamento queer o queer friendly, ma perché hanno lasciato qualcosa di significativo ai posteri inerente la loro arte. E se andiamo a guardare la storia di ogni singolo cantante, pittore, attore, regista con un orientamento o un’identità di genere che non sia etero e cisgender, scopriremo che la loro strada sia stata in salita. Alcuni di loro, come Neil Patrick Harris Jodie Foster hanno fatto coming out dopo aver raggiunto il successo. Altri, come Ellen Page si sono ritrovati senza lavoro dopo il coming out – anche se dopo è arrivata Netflix e ha sparigliato le carte, creando molti prodotti, tra film e serie tv, filo-queer. Non esiste quindi una lobby gay, in particolare nel cinema, e neppure una lobby pro-minoranze in generale: è uno dei temi che affronta Hollywood, anche trasversalmente in relazione ai ruoli dei loro attori.
La questione della diversificazione a Hollywood
Si tratta di un tema di grande attualità, che torna in auge negli ultimi tempi ogni anno, in occasione delle grandi premiazioni cinematografiche di gennaio e febbraio. Le cosiddette minoranze (donne, gay e lesbiche, afroamericani, ebrei, asiatici, mediorientali) sono rappresentate nel cinema e quindi nelle candidature e nelle premiazioni? La risposta è: ancora no, ma si sta lavorando affinché tutti abbiano la giusta rappresentazione, in particolare all’Academy.
Hollywood tratta, direttamente e trasversalmente, il modo in cui questa rappresentazione abbia sempre riguardato la realtà oppure la proiezione voluta e ottenuta dai maschi etero e cisgender Wasp. Partiamo dalla questione trasversale, che ha un nome ben preciso: Darren Criss. Criss può essere definito un attore feticcio di Ryan Murphy, perché ha preso parte a Glee, American Horror Story e American Crime Story. Non è il solo in Hollywood ad aver già lavorato con Murphy, ma il suo caso è speciale perché interpreta un personaggio etnicamente aderente alla realtà. Criss ha origini filippine, così come le ha il suo personaggio Raymond Ainsley. Durante la miniserie viene ripetuta spesso l’importanza che un attore porti in scena anche e soprattutto la propria minoranza di riferimento. Per Criss era avvenuto già in American Crime Story, ma quel personaggio, Andrew Cunanan – come ben sa chi ha un po’ di dimestichezza con la cronaca nera del 1997 – era un personaggio fortemente negativo, un serial killer. Con Hollywood, che è ambientato 50 anni prima, nel 1947, Murphy sfrutta un’occasione per spiegare il modo in cui gli asiatici sono stati per molti decenni trattati nello showbiz americano, costretti a interpretare personaggi negativi. Teniamo presente che il cinema è sempre stato un’arma di propaganda ma anche un mezzo per cambiare la società: immediatamente dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli asiatici erano identificati indissolubilmente con i giapponesi, i «nemici» che avevano compiuto l’attacco vigliacco di Pearl Harbour. E pazienza se gli Stati Uniti si erano “rifatti” abbondantemente vincendo la guerra con la bomba atomica, anzi con due bombe atomiche.
La rappresentazione etnica all’interno del cinema, in Hollywood, dicevo, viene trattata in maniera anche più diretta. Si parla abbondantemente di quanto lo showbiz non abbia restituito il giusto a Anna May Wong, uno dei personaggi il cui nome e una parte della storia ha una base reale. C’è poi la questione relativa a Hattie McDaniel: la vera attrice che interpretò Mami in Via col vento fu spesso tacciata di essere funzionale a un sistema fondamentalmente razzista. Murphy insinua un sospetto nello spettatore: e se McDaniel abbia portato il personaggio della Mami sul grande schermo perché quello era il solo modo per le donne afroamericane per «mettere un piede nella porta, un dito alla volta»? La citazione che sto utilizzando è significativa. In Hollywood, McDaniel è interpretata da Queen Latifah, che era in un’altra opera con un tema simile, Hairspray, cioè la versione musical Disney tratta dal film di John Waters Grasso è bello.
Quando si guarda Hollywood, per molti tratti sembra di essere in Grasso è bello. Negli anni ’80, il regista – che è di Baltimora – volle raccontare una realtà moderna, oggi consuetudine, in cui il mondo appartiene a chi è diverso. L’opera di Waters è più acuta e lungimirante di quella di Murphy: nel suo film, ambientato negli anni ’60 e quindi nel pieno delle Jim Crow Laws nel Sud degli Stati Uniti, Waters ha ampliato lo sguardo sulle minoranze includendo mondo Lgbtqai* – rappresentato dalla drag queen Divine, grandissima amica del regista fin dall’infanzia, in un ruolo femminile – afroamericani e obesi. In altre parole, Waters ha anticipato un discorso importante sulla body positivity: in Grasso è bello si parla soprattutto di autoaccettazione. Non c’è, come potrebbe pensare superficialmente qualcuno, l’apologia dell’obesità: l’obesità è una condizione pericolosa per la salute, ma quando una persona obesa o comunque pericolosamente sovrappeso cerca di mantenere un’alimentazione sana e fare attività fisica (in questo caso ballando) e non riesce a ottenere un cambiamento salutare, cosa dovrebbe fare se non accettarsi per come si è?
C’è però un punto che qualsiasi narrazione sul cinema ancora non afferra. Quella di una “minoranza” in particolare, cioè quella delle donne universalmente ritenute non avvenenti perché non rispondenti a determinati criteri estetici. Non faccio che pensarci in questi giorni, perché Franca Valeri ha vinto il David di Donatello. Io adoro Franca Valeri e penso sia bellissima. Non credo però che il cinema le abbia restituito il giusto, relegandola spesso a ruoli macchiettistici. Ne Il segno di Venere, c’era una netta contrapposizione tra la sua immagine e quella della “cugina” Sofia Loren. Per me ci sarà un vero cambiamento quando inizieremo a vedere le varie Franca Valeri nel ruolo di bombe sexy. Perché no? Forse magari quel giorno Murphy non farà mai più interpretare a Mira Sorvino la solita svampita.
Il tema del cinema come fiaba
«Perché vuoi fare cinema?»
(dal dialogo tra Avis Amberg e Jack Castello in Hollywood)
«Perché quando entro in un cinema, ne esco migliore di quando sono entrato.»
Che cosa rappresenta il cinema per noi? Io posso dire quello che rappresenta per me. È una fonte di emozione inesauribile, più dei libri (e io amo moltissimo i libri). Nel cinema c’è qualcosa che non so descrivere, è come se vivessi un sogno a occhi aperti quando guardo un film. Avrei voluto lavorare nei film per vivere e provo una profonda ma positiva invidia nei confronti di chi fa questo. Li ammiro. Hanno il potere di far sognare le persone.
Il cinema un sogno, una fiaba. Ma c’è un cinema, soprattutto negli ultimi anni, che tende a raccontare e premiare solo storie vere, biopic. Eppure con una sceneggiatura, possiamo fare quello che vogliamo, raccontare la storia che vogliamo. In Hollywood, Ryan Murphy fa proprio questo: ci sono dei personaggi reali – ma che pronunciano frasi soltanto immaginate – e ci sono personaggi fittizi, risultato di commistioni di più personaggi reali. Tra i personaggi reali ci sono McDaniel interpretata da Latifah, Kathy Bates nel ruolo di Eleanor Roosevelt, e ancora i personaggi George Cukow, Noel Coward e così via. Un discorso a parte merita l’attrice che interpreta Vivien Leigh: si chiama Katie McGuinness ed è naturalmente bellissima, ma come per chi l’ha preceduta (Julia Ormond ha interpretato lo stesso personaggio in Marilyn) è davvero impossibile anche avvicinarsi all’originale. Sul fronte dei personaggi immaginari ma ricalcati su personaggi reali c’è quello di Patti LuPone che è Avis Amberg (a metà strada tra Irene Selznick e Sherry Lansing), quello di Camille Washington (ispirata a Dorothy Dandridge e Lena Horne) e naturalmente gli altri.
I più interessanti sono sicuramente gli sviluppi dei personaggi di Rock Hudson e del suo agente Henry Willson. Come tutti coloro che sono stati piccoli negli anni ’80, conosco bene la storia della fine di Hudson, sex symbol per le donne, omosessuale in segreto, morto per le complicazioni dell’Aids nel 1985. Hudson, a differenza di quello che accade nella miniserie, ha rivelato solo alla fine di essere omosessuale, mostrando però finalmente al mondo cosa abbia significato per un attore dover nascondere chi si era, non essere liberi di camminare mano nella mano con il proprio amore. Quello di Henry Willson è un personaggio fondamentalmente negativo (ma aspettate a leggere). È interpretato in Hollywood da Jim Parsons, il mitico Sheldon Cooper di The Big Bang Theory. Neppure Willson ha fatto una bella fine: perse molti clienti (anche tra gli attori gay) poiché si venne a sapere della sua omosessualità e morì di cirrosi epatica a causa del suo alcolismo. In Hollywood, Wilson si disintossica e diventa un personaggio positivo all’ultima puntata: comprende delle cose, comprende di essere parte del cambiamento.
L’operazione non è nuova: negli ultimi anni, abbiamo visto Quentin Tarantino cambiare la storia migliorandola. In Bastardi senza gloria, l’ebrea Shoshanna, sfuggita al martirio per mano delle SS, riesce a intrappolare Hitler e Goebbles in un cinema, e questi vengono trivellati dalle mitragliatrici di due Bastardi, milizia ebrea reclutata dal maggiore Aldo Raine detto Aldo l’Apache. In C’era una volta a Hollywood, la Manson Family viene sterminata nella notte in cui avrebbe ucciso Sharon Tate a i suoi amici nella notte tristemente nota come massacro di Cielo Drive: a riuscire nell’opera sono uno stuntman magistralmente interpretato da Brad Pitt, la sua fedele “pitt” (sic!) Brandy, un’attrice italiana (anche quella a metà strada tra due personaggi reali, Sophia Loren e Claudia Cardinale) e una star degli spaghetti western. Tarantino – che nel film salva letteralmente la vita a Tate e al suo piccolo Patrick – ha reso più palese quel sogno rappresentato dal cinema, Murphy ha solo ribadito il concetto, anche se l’ha fatto in maniera davvero emozionante.
Il riscatto finale secondo Ryan Murphy
Parlavamo di emozioni. Tra la fine della penultima puntata e l’ultima puntata di Hollywood, lo spettatore ha un colpo al cuore. Il gruppo di amici all’interno di questa storia corale vede distrutta la propria opera, Meg, che vede protagonista una ragazza afroamericana in un ruolo diverso dalla solita domestica. In realtà, il montatore ha salvato una copia di sicurezza e il film ottiene il successo che merita. C’è quindi l’Hollywood Ending in Hollywood – non senza piangere un paio di morti.
È un’operazione, quella del riscatto finale, cui Murphy ci ha abituato in tutte le sue opere. Quando guardiamo American Horror Story, per esempio, ci sembra che abbia detto tutto quanto, finché nell’ultima puntata non c’è un rovesciamento completo di quello che lo spettatore aveva pensato fino a quel momento. Soltanto una volta, il riscatto è stato parzialmente anticipato. Nella stagione di Ahs Freakshow, c’è un trait d’union con la seconda stagione Asylum: viene spiegato come mai Pepper, una delle attrazioni del freakshow, sia finita nel manicomio di Briarcliff. Il finale è strappalacrime ma ti riconcilia con il mondo: tutti vorremmo un lieto fine, ma a volte possiamo accontentarci di vivere dei ricordi più belli.
C’è un’ultima questione che vale la pena affrontare riguardo a Hollywood. Una delle novità della trama è rappresentata dall’amicizia femminile. I personaggi di Camille e Claire sono due aspiranti attrici rivali. Ma nel momento clou, Claire fallisce volontariamente il suo provino per Meg, riconoscendo nella rivale l’attrice perfetta per quel ruolo. Il karma la premierà. Sarebbe bello pensare che nella vita reale cose del genere accadano.