L’arte del tatuaggio è qualcosa che affonda le sue origini nella notte dei tempi. Da quando l’uomo ha capito il modo in cui poter lasciare dei segni indelebili sulla pelle, lo ha fatto per dire qualcosa di sé agli altri membri della tribù.
di Paolo Merenda
Nel 2020, il messaggio di fondo del tatuaggio in realtà non è cambiato. Ce ne parla Marco Russo, nato a Napoli nel 1983, e che diventa tatuatore nel 2004. Dopo molta gavetta, nel 2011 apre lo studio B8 Tattoo, prima ad Avellino e poi a Napoli. Vanta collaborazioni anche con Tribal Tattoo di Torino e Walk in Tattoo a Stoccarda, e finora è il 2012 il suo anno d’oro: nella convention di Nuoro vince la categoria Figurativo e nella convention di Pisa arriva secondo nella categoria Best Color.
Con più di 15 anni d’esperienza, a fronte di un’età piuttosto giovane, 37 anni tra qualche mese, ha all’attivo presenze e lavori in Italia e all’estero, il che ha contribuito a fargli avere una visione d’insieme del fenomeno tatuaggio al giorno d’oggi. E poi, diciamocelo, per la legge dei grandi numeri ha anche avuto modo di incontrare i casi umani più particolari, cosa che contribuisce ad arricchire l’esperienza non meno che la pratica in sé. Per questo abbiamo deciso di intervistarlo, partendo da una delle grandi domande che possono sorgere sull’argomento.

Marco, perché ci si tatua?
Il tatuaggio ha un significato storico che varia di popolo in popolo. Il punto è che c’è differenza tra tatuaggio vero e proprio e tatuaggio commerciale. A Londra, agli inizi del 1900, il tatuaggio è diventato appunto commerciale, ed è stato perso il vero significato, dare linguaggio al corpo. Le persone non si tatuano più per il significato in sé, ma per un fattore estetico. Ed è lì che entrato nella vita quotidiana delle persone, e passa da tutto ciò che conosciamo, come ad esempio i tatuaggi delle bande di motociclisti. Esprime senz’altro ribellione, ma anche vanità, fino ad arrivare al giorno d’oggi, in cui ha acquisito le regole del branco, ovvero lo si fa perché lo fanno gli altri. I veri alternativi oggi sono quelli che non hanno tatuaggi. Noi a 15-16 anni ci facevamo il tribale sul braccio per indicare che non eravamo come i nostri nonni, i “vecchi” che non volevamo essere e che non saremmo diventati grazie al tribale. Invece oggi i giovani hanno i tatuaggi quasi solo sul volto o sul collo, perché i “vecchi” sono tatuati in posti non in vista e devono estremizzare il messaggio. L’ironia di oggi è tatuarsi in un modo che viene captato come nuovo, e invece lo si fa paradossalmente tornando alle origini: nell’antichità le classi sociali venivano distinte appunto da differenti tatuaggi sul volto.
Come mai ti sei avvicinato al mondo dei tatuaggi?
Io nasco come amante dei tatuaggi, anche perché quando ero piccolo era difficile vedere gente tatuata. Mi affascinava proprio avere i disegni addosso, quando ero più piccolo me li facevo col pennarello, perché non sapevo ancora cosa fossero. Da lì, 1998 circa, ho cominciato a comprare riviste, al tempo introvabili, come Tattoo Revue, e su una di queste trovai una pubblicità di una macchinetta per fare tatuaggi. Comprai la mia prima macchinetta nel 1999, perché vedevo il tatuatore come una rockstar. In verità il mio unico obiettivo era avere tanti tatuaggi, ma a quell’età tra qualche amico che ho tatuato e l’interessamento dell’altro sesso nei miei confronti, che mi dava motivo di dedicarci sempre più tempo, capii che poteva essere qualcosa in più di un hobby da fare gratis. Il la me lo diede mio padre, quando mi disse che non avrebbe più finanziato un hobby e che avrei dovuto ricavarci dei soldi se volevo continuare a farlo.
Sei stato a diverse convention, tra le altre Chieti, Cagliari, Torino, Nuoro e Pisa (con queste ultime due che ti hanno visto premiato). Come le hai vissute?
Ho partecipato a un buon numero di convention in giro per l’Italia. La parte migliore è incontrare gli altri tatuatori, perché l’errore comune iniziale è voler guadagnare e farsi conoscere in questi luoghi. Invece la parte importante è stringere amicizie e confrontarsi tra colleghi, è quello il vero spirito. Si può imparare di tutto, non solo tecnicamente ma anche nell’approccio con il cliente. Tra l’altro ho conosciuto tatuatori inglesi, americani, polinesiani, spagnoli, e vedi che anche se l’arte è la stessa, hanno proprio un altro modo di farlo. Ovviamente c’è anche un po’ di competizione, di voci maligne, ma fa parte del gioco. Una cosa da dire è però questa: se fai il tatuatore e vai a una convention importante, diciamo quella di Roma, pensando di fare l’artista, ti sbagli. Ci sarà sempre il cliente che in un modo o nell’altro non ha rispetto per il lavoro degli altri, o quello che vuole la stellina dietro l’orecchio o sul polso. Dopo aver pagato viaggio, albergo e spese varie, farsi fare una stellina è una scelta strana, che spiazza il tatuatore.
Giusto a proposito di richieste strane, ne avrai avute le corso degli anni. Quali sono le più assurde o divertenti?
Il punto è che ognuno di noi cerca di essere esclusivo, unico, ma assolutamente nessuno ci riesce al 100%. Ci sarà sempre qualcosa che rimanda ad altro, che è stato già fatto. In particolare, ricordo un ragazzo che venne, avendo in mente «un grande progetto, qualcosa di unico, mai visto prima, su tutto il braccio. Una cosa così» e mi mostrò una foto presa da Internet, di un braccio tatuato come se ne vedono tanti. Oppure in alcuni casi entra in gioco la componente culturale: ho tatuato molte peonie, elemento importante della cultura dei tatuaggi giapponesi, senza che le persone sapessero cosa fosse. Una volta un ragazzo entrò in studio, dove avevo un manifesto dei Pantera, quello famoso con un grosso serpente e, sotto, il nome del gruppo musicale. Vide il manifesto, indicò il serpente e disse: «Ecco, quest’animale voglio, la pantera». O la classica frase, che gira come un incubo nei centri in Italia e nel mondo: «Voglio tatuarmi un sole perché sono solare», e peggio ancora la controparte dark «Voglio tatuarmi una luna perché sono lunare». Due casi sulle mode li ricordo bene. Purtroppo il tatuaggio non dovrebbe seguire mode, perché resta sulla pelle in eterno, ma purtroppo talvolta lo fa. Più di dieci anni fa andavano di moda le frasi, e un ragazzo venne a chiedermene una. Conoscendolo, chiesi in quale lingua la volesse, e la risposta mi è rimasta impressa: «La lingua più bella». Il secondo caso che mi è capitato sulla moda è eclatante. Vedevo un ragazzo desideroso di tatuarsi, ma indeciso. Alla fine, dopo aver visto diversi disegni e aver parlato di alcuni progetti in base alla parte del corpo, se ne uscì con: «Ma cosa va di moda quest’anno?»
Non il massimo, direi. Ma ora proviamo a predire il futuro. Come sarà quest’arte tra 10 anni?
Più si va avanti, più si ricercano le origini. Credo che in 5-10 anni finirà il tempo in cui tutti l’avranno fatto per la legge del branco, e poi si tornerà coi piedi per terra, e a farsi tatuaggi profondi, per il vero significato. Lo sfizio di avere il braccio coperto, come peraltro l’ho avuto io, non sono esente da colpe, credo che debba scemare. I clienti occasionali andranno in due direzioni: smetteranno o diventeranno amanti del tatuaggio e quindi sceglieranno bene prima di entrare in uno studio. Io sono dell’idea che il tatuaggio non deve essere per tutti. È brutto da dire, ma col senno di poi molti soggetti non li avrei tatuati, perché è una grossa responsabilità, e tra l’altro riconosci subito la categoria di persone che non lo fanno con consapevolezza. E poi si trovano qualcosa sulla pelle di sui si pentiranno.