Uno dei film maggiormente iconici sulle possessioni sataniche, oltre che uno dei migliori film della storia del cinema.
di Paolo Merenda
Roman Polański, che festeggia proprio oggi 87 anni essendo nato il 18 agosto 1933, è un regista conosciuto per motivi particolari: oltre che per le sue opere, è un nome che torna per il fortuito, mancato coinvolgimento del massacro di Cielo Drive. I seguaci di Charles Manson, infatti, il 9 agosto 1969 fecero irruzione nella sua proprietà e uccisero, fra gli altri, la moglie Sharon Tate, incinta all’ottavo mese del figlio che avrebbe avuto da Polański, il piccolo Patrick, che fu sepolto insieme all’attrice, stretti per sempre in un abbraccio. Il regista invece scampò alla morte perché si trovava altrove. Ma l’anno prima, per pura coincidenza, parlò in un film di satanismo e questo lo consegnò alla storia per la straordinaria bellezza dell’opera.
Rosemary’s Baby è un horror sul proselitismo satanico, e non si può non notare la triste correlazione tra la pellicola che aveva realizzando Polanski e l’eccidio compiuto dalla diabolica setta di Manson. Ma, parallelismi a parte, è anche un film superbo nella sua bellezza. La parabola di Rosemary Woodhouse, interpretata da Mia Farrow, è emblematica di come gli stimoli esterni di un mondo che va sempre più veloce siano in grado di fagocitare tutto, anche una madre in dolce attesa, ruolo che serve a indicare una tipologia di persone che di più hanno bisogno di fermarsi a vivere con tranquillità un momento che non tornerà.
La crescita del pancione fa il paio con la crescita di ciò che la donna non riesce a controllare, principalmente per la presenza di Roman e Minnie Castevet, i classici vicini impiccioni. Il ruolo del marito, Guy Woodhouse, rimane invece fumoso fin quasi al finale. Tra l’altro, il personaggio di Minnie Castevet ha dato all’attrice che la personifica, Ruth Gordon, un premio Oscar e un Golden Globe.
Il film mostra anche come il vortice che porta Rosemary al drammatico finale abbia indizi iniziali difficili da cogliere: il cambio del ginecologo, ad esempio, che sulle prime può essere preso per un consiglio dato da amici. Roman Polański sa giocare bene con i particolari, tanto che rende tutto plausibile, anche che lei stia attendendo il figlio del demonio.
Come mai lei accetta tutto ciò? Questo è un’altra chiave di lettura della pellicola: essendo nuova del posto, dato che ci è appena andata ad abitare, cerca il modo più efficace per integrarsi a farsi accettare. Il ribelle regista spiega così i danni che può fare il voler piacere agli altri, anche snaturando se stessi. Un grande insegnamento, ancora più prezioso perché viene durante la visione di un film da non perdere.
Non solo: Polański ci ha consegnato la parabola perfetta della violenza sulle donne che avviene per mano di un narcisista perverso. Rosemary viene infatti dapprima isolata dai suoi amici di sempre, le vengono tolti tutti i riferimenti, finché non viene fagocitata da una cerchia (che poi è una vera e propria setta) che si regge sui segreti. E ciò che Rosemary riesce a percepire del Male viene bollato come pazzia, isterismo di una donna incinta in un’epoca in cui i mariti si liberavano realmente delle mogli mandandole in manicomio.
La pellicola è poi incredibilmente claustrofobica. Anche la casa che Rosemary libera da colori scuri e pesanti arredamenti finisce per diventare sempre troppo piccola, pure con quell’armadio che collega la dimora alla casa dei Castevet. Il simbolismo ha reso tutto abbastanza inquietante: Rosemary che indossa il ciondolo con la radice di tannis, che mangia le interiora di un animale, che torna a casa acconciata da Vidal Sassoon. È la sua personale discesa verso gli inferi, ma non avviene a causa degli adepti del demonio che le sono accanto. Il percorso verso il maligno di Rosemary è la maledizione di tutte le donne: in una perversa generalizzazione, Polański ci dà la misura di un sentire comune, quello secondo cui l’istinto materno è una cosa innata, qualcosa di assolutamente irreale che il regista ha voluto sottolineare in ogni modo possibile.