American Beauty è un film molto speciale, che racconta una storia che è passata alla storia per via della struttura narrativa.
Mi chiamo Lester Burnham. Questo è il mio quartiere, questa è la mia strada, questa è la mia vita. Ho quarantadue anni, fra meno di un anno… sarò morto. Naturalmente io questo ancora non lo so. E in un certo senso sono già morto.
Sono le parole iniziali pronunciate dal protagonista di American Beauty, Lester. Ma quando la narrazione della storia inizia, lui è già morto. È interessante, perché Lester è quello che si definisce in narratologia narratore onnisciente, ossia è colui che racconta la storia in prima persona, ma al tempo stesso conosce tutto di essa.
È un po’ paradossale, non solo perché Lester ci viene presentato sulle prime come un perdente, per cui cosa potrà mai sapere? Ma il paradosso maggiore è anche nel fatto che sia morto e quindi, in teoria, non potrebbe più parlare. Sì, nella realtà sarebbe tutto giusto, ma il cinema segue regole differenti. Tanto più che prima di American Beauty, questa stessa struttura narrativa era stata usata in un altro film, e che film.
Parliamo naturalmente di Viale del tramonto, pellicola del 1950 diretta da Billy Wilder che si apre appunto con il monologo, sotto forma di voce fuori campo, di un morto. Nel cinema successivo, sono stati tanti i film che hanno deciso di far parlare i morti sotto forma di narratori onniscienti. Uno degli esempi più celebri è Donnie Darko, film del 2001 di Richard Kelly, che è tuttavia un po’ più complesso, perché la trama ha a che fare con la teoria del caos e la teoria delle stringhe.
Cosa comporta un film come American Beauty? Il fatto che venga detto che il protagonista è morto fin dalla prima scena non costituisce uno spoiler, perché la cosa fondamentale a quel punto è come ci è arrivato. Ma in American Beauty è in realtà un accessorio: allo spettatore non frega niente della trama, perché sta guardando una pellicola filosofica che racconta il modo in cui l’americano medio è diventato. E che ci crediate o no, nonostante il film abbia oltre vent’anni, be’, è ancora molto valido da questo punto di vista: non è invecchiato di un giorno.
Se vi va di vederlo, al momento è nel catalogo Netflix. Se siete pigri, vi racconto un po’ di cose, che però contengono veri spoiler. Il regista della pellicola è Sam Mendes, che ha vinto anche l’Oscar per la miglior regia (American Beauty ha vinto in totale 5 statuette, più numerosi altri premi in altri concorsi molto prestigiosi). Nel cast figurano Kevin Spacey, Annette Bening, Thora Birch, Mena Suvari, Wes Bentley, Chris Cooper, Allison Janney e Peter Gallagher.
La trama si dipana attraverso differenti storyline. C’è quella del padre, Lester, che vive con la sua famiglia in una deliziosa casa con la porta rossa. È insoddisfatto della sua esistenza su molti piani, ma un giorno decide di riscattarsi e fare quello che vuole. C’è sua moglie Carolyn, che è un’ambiziosa donna in carriera, anche lei però molto insoddisfatta, soprattutto del marito. C’è la figlia Jane, insicura, che si innamora del vicino di casa Ricky, uno spacciatore con un padre filonazista o omofobo. Le vicende di queste quattro persone di intrecciano e si intersecano, ma il punto nodale per tutti è un personaggio minore, Angela Hayes (sì, è esattamente lo stesso nome della vittima di Tre manifesti a Ebbing, Missouri): oggetto del desiderio per il padre Lester, è per Jane una spina nel fianco, sebbene si dica sua amica. Cos’altro c’è? Non ve lo dico: guardatelo. Anzi, guardatelo più da vicino.