La grande abbuffata è un film del 1973 diretto da Marco Ferreri che fornisce una critica alla società ancora valida e ancora d’impatto.

Nella quarta stagione di Futurama, nella periodica puntata incentrata sul «what if», Bender chiede cosa accadrebbe se fosse un essere umano. Il risultato: Bender muore nel giro di una settimana a causa dei suoi eccessi. Ma l’interrogativo «what if» che si chiede Marco Ferreri ne La grande abbuffata è: si può morire abbuffandosi per protestare contro la vuotezza dell’esistenza umana? Il risultato, in questo caso, pur essendo ironico come nel caso di Futurama, ha un che di grottesco e al tempo stesso affascinante.

Nella storia de La grande abbuffata ci sono quattro amici, quattro uomini che hanno avuto molto successo nella vita e sono alla soglia della terza età. Sono uniti da una profonda stima e da un profondo rispetto reciproco, oltre che da quelle caratteristiche che rendono una bromance duratura. Ma un giorno, per ragioni per l’uno diverse dall’altro, questi quattro amici decidono di morire insieme. E decidono di suicidarsi mangiando a dismisura cibi incredibili, ricette tanto ardite da avere un che di sessuale. Ma non tutti moriranno in questo modo. Il primo ad andarsene è il pilota d’aerei Marcello, che cerca di scappare a bordo di una Bugatti d’epoca ma finisce congelato. Da quel momento in poi, per gli altri amici, è tutta in discesa e anche la morte non diventa un fatto triste, ma qualcosa che è capitato, che loro stessi hanno desiderato, nonostante le variabili: un uomo d’affari cinese con un’offerta di lavoro, tre bellissime e sensibili prostitute, una maestra.

Il cast è spettacolare e comprende Philippe Noiret, Michel Piccoli, Marcello Mastroianni e Ugo Tognazzi. Quella di Ferreri fu infatti una produzione italo-francese, in un periodo particolare del cinema europeo, in cui questo tipo di collaborazione proliferò con esiti incredibili. La grande abbuffata, per esempio, è davvero un film superbo: ben scritto, ben recitato, racconta una storia che non ti aspetti, in cui l’edonismo è intrecciato al suo rifiuto. 

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Cosa rende una vita degna di essere vissuta? È una bella domanda che ne La grande abbuffata non viene approfondita, almeno in senso stretto. Tutti e quattro gli amici hanno avuto la loro quantità di soddisfazioni, soprattutto in campo lavorativo (anche se a qualcuno pure i successi vanno stretti alla sua sensibilità), e hanno avuto la loro dose di delusioni, in particolare in ambito sentimentale. I protagonisti hanno messo sul piatto di una bilancia da cucina successi e insuccessi? Probabilmente no, Ferreri almeno non ce lo dice. Parte da un punto della storia in cui il suicidio collettivo è ormai deciso, e neppure le considerazioni di un’arguta prostituta riescono a riportare i quattro uomini a più miti consigli.

L’ossessione per il cibo e l’edonismo è una delle caratteristiche narrate sapientemente dal cinema di Ferreri. Anche se con un esito completamente diverso (e diversamente affascinante), per me La grande abbuffata presenta alcuni punti in comune con La carne, anche se quest’ultimo percorre un topos differente, quello del possesso oltre la morte. Ferreri sembra prendersi un po’ gioco del detto «siamo quello che mangiamo»: in realtà noi siamo una versione grottesca del modo in cui la natura ci ha fatti. Abbiamo creato il consumismo, abbiamo creato lo spreco (soprattutto quello alimentare), abbiamo perduto il rispetto per la vita. E nella eloquente scena finale de La grande abbuffata (così come in quella de La carne), la natura si riprende ciò che è suo, un territorio distrutto dall’uomo in cui l’unica speranza è il sopravvento animale. Quasi una logica vegan, quando ancora il veganismo non era così diffuso.

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