Una delle opere maggiormente rappresentative di Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita è uno spaccato sulle classi sociali svantaggiate nelle borgate romane.

di Paolo Merenda

Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini, al centro di varie diatribe anche a 45 anni dalla morte, è stato indubbiamente un faro nel mondo della letteratura e non solo. Basti pensare a uno dei suoi libri più celebri e rappresentativi del Neorealismo, Ragazzi di vita, romanzo del 1955 che a volte sembra ricalcare eventi di cronaca dei giorni nostri.

Il libro narra della parabola del Riccetto, un ragazzino dedito a piccoli furti e sotterfugi per rimanere a galla nelle borgate romane del dopoguerra, e dei suoi amici, come Caciotta, Marcello e Alduccio. Il modo disincantato con cui Pasolini vede la vita del ragazzo lo porta a un inizio e una fine speculari: se nel primo capitolo, dopo essersi spinto sul Tevere, Riccetto cerca di salvare la vita di una rondine mettendo in pericolo la propria, alla fine non fa lo stesso quando a rischiare la vita è un ragazzino, che infatti annega.

Nel mezzo, alcuni passaggi classici, come il fidanzamento con una ragazza che gli fa mettere la testa a posto, fino a un arresto per un reato non commesso e il nuovo crollo. Oppure il caso di bullismo ai danni di Piattoletta, che viene legato a un palo per dargli fuoco. Difficile non vederci il recente caso di cronaca di Willy, il ragazzo ucciso a Colleferro (manco a farlo apposta fa parte dell’area metropolitana di Roma), e chissà sull’argomento cos’avrebbe avuto da dire Pier Paolo Pasolini, dall’alto della sua levatura. Forse, se lo avessimo ancora tra noi, Pasolini sarebbe stato in grado di scandagliare con lucidità le cause di un omicidio tanto efferato.

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La storia di Riccetto è quella di un ragazzo che cerca di responsabilizzarsi, ma nel farlo perde la sua umanità (da cui gli episodi iniziali e finali che ne mostrano la differenza di reazione). Potrebbe esserci qualche eco di Anthony Burgess, dal suo Arancia meccanica con Alex DeLarge, reso iconico dal film di Stanley Kubrick. Anche se, legando Ragazzi di vita al filone Neorealista, non lo si può associare ad altre opere: uno dei punti di forza di questi libri, e forse il motivo per cui vengono letti e studiati a scuola (oltre che per l’ovvio valore nella formazione dei ragazzi) è l’unicità di ogni titolo. Le storie, sempre diverse, battono su tasti quindi diversi, e diventano complementari nella formazione e la cultura dei lettori. E prendono spunto per la realtà per immaginarla, o almeno per re-immaginarla.

C’è anche un altro fattore non trascurare: la lingua. Ragazzi di vita ha il merito di portare il lettore dentro la vita dei protagonisti con un linguaggio vero e ardito, fatto spesso di volgarità. E questo linguaggio è ancor più stridente di fronte alla lingua narrativa dell’autore (che era anche linguista), piena di poesia di fronte allo slang romanesco. Perché si parte pure, più o meno, con

«Aòh, addò vai?»

ma si termina con

in quel gran silenzio si sentiva solo qualche carro armato, sperduto, dietro i campi sportivi di Ponte Mammolo, che arava col suo rombo l’orizzonte.

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