Gli inquirenti hanno rivelato alcuni possibili dettagli relativi all’omicidio di Eleonora e Daniele che hanno scatenato gli utenti social. Ma sono i media a suscitare la violenza?
I commenti del giorno dopo sui social sono sempre gli stessi. Se vado a guardare cosa scrivono gli utenti sulle fanpage delle principali testate italiane, le parole sono agghiaccianti, non solo perché, come spesso accade, si perde di vista la centralità della vicenda, ossia le vittime, Eleonora e Daniele, le loro storie e le loro speranze per il futuro, ma anche perché si danno spiegazioni troppo semplicistiche su quello che è accaduto. Si incolpa la violenza nel cinema, i videogiochi e il caso non voglia che trovino nella camera del presunto colpevole un cd di Marilyn Manson.
Qualche tempo fa, ho visto Charlie Says, che è una specie di biopic su Charles Manson (che non c’entra nulla con Marilyn, artista fantastico e dalla sensibilità spiccata, se non per l’ispirazione del nome) e sulla storia dei massacri Tate-LaBianca e mi sono ritrovata a domandarmi se i tantissimi dettagli sugli omicidi che vengono mostrati nel film avrebbero potuto avere un qualche effetto sul pubblico. Da parte mia, ho posto la mia attenzione sulla misoginia che pervadeva la Family: per me è stata una sorpresa, perché immaginavo le comuni di hippie, come la Family, un luogo d’amore libero. La Family era invece un luogo d’odio libero.
Mi sono comunque ritrovata a pormi la domanda annosa, relativa all’influenza della violenza mediatica nella nostra vita. Quello che vediamo, quello che leggiamo, quello a cui giochiamo istillano in noi il seme della violenza? Chi vede film come Charlie Says è portato a emulare quanto visto sullo schermo? Se così fosse, dovrebbe essere in realtà la cronaca nera in sé a essere sotto accusa, perché il film ricrea, anche se abbastanza dettagliatamente, *quel* fatto di cronaca nera. Un circolo vizioso, un gatto che si morde la coda.
La risposta breve è: no. La risposta lunga è: no, perché se la violenza emerge è perché è dentro di noi. L’odio è tutto intorno a noi. È nella quotidianità, è nelle cose che accadono nel mondo. La violenza è più antica del cinema e dei videogame, più antica della fiction, più antica della narrazione stessa. E non parlo delle Crociate (o almeno non è così semplice o immediato). Dare la colpa ai media per la violenza equivale a dire che la violenza sia al di fuori dall’uomo. È la stessa logica che spinge alcuni utenti social a dire che la sopravvissuta a uno stupro se la sia cercata, o che l’ex moglie di un omicida dei figli comuni sia la responsabile per aver fatto scattare la violenza. Cioè equivale a prendere l’effetto e pensare che sia la causa.
Invocare la censura non ha senso. La violenza nel cinema è, per esempio, evasione, come negli horror: guardare un horror significa staccare dall’orrore quotidiano, gettarsi in una storia che sappiamo finta anche se per quell’ora e mezza c’è sempre la sospensione dell’incredulità. Per i biopic come Charlie Says è più o meno lo stesso, sebbene narrino storie vere, ma si tratta di storie del passato, che raccontiamo per esorcizzarle e far sì che non si ripetano.
Il duplice omicidio di Lecce mi ha fatto pensare a un fatto di cronaca nera di un anno fa, di un altro ragazzo salentino, Stefano, ucciso per strada a Torino perché «sembrava troppo felice». Non riesco a trovare, nelle opere creative degli ultimi anni riferimenti a quella storia. Se ce ne fossero stati, mi chiedo, forse la tragedia di Lecce poteva essere evitata, Eleonora e Daniele sarebbero ancora vivi? La fiction probabilmente può salvarci la vita (non lo dico io, ma lo hanno espresso molto meglio di me persone come Giovanni Boccaccio e Geoffrey Chaucer), ma quel che è certo è che la censura non serve proprio a nulla. Come pure sostenne Marilyn Manson dopo la strage della Columbine High School.
(Qui di seguito un meraviglioso brano di Marilyn Manson, una grandiosa denuncia che parla di violenza sulle donne. Eppure Manson viene spesso criticato per la sua immagine o la sua musica, forse da chi non lo conosce a fondo).