Accogliamo con estremo piacere l’intervento di Gianfranca Saracino, membro di Agedo Lecce, che ci spiega il suo punto di vista su come la stampa dovrebbe raccontare il mondo Lgbtqai*.
Qualche settimana fa, l’ennesimo caso di cronaca nera, un femminicidio, ha destato la nostra attenzione anche per il modo erroneo in cui è stato spesso raccontato. Due innamorati, Maria Paola e Ciro, sono stati oggetto di una presunta aggressione: Maria Paola è morta, Ciro è rimasto gravemente ferito e ha anche dovuto affrontare tutti gli articoli di stampa che l’hanno descritto come Cira, ossia con il genere che gli è stato attribuito alla nascita. Si è posto un problema di rispetto per Ciro, sopravvissuto alla violenza transfobica e alle prese con un gravissimo lutto. Mi sono interrogata a lungo: cosa si può fare? I corsi di aggiornamento per giornalisti sono un ottimo punto di partenza, ma si può e si deve fare di più e soprattutto meglio. Così ho pensato di chiedere il parere a un’attivista come Gianfranca Saracino. Ecco il suo contributo, per il quale la ringraziamo moltissimo. A proposito, domani Gianfranca è ospite con le figlie a Tutto su mia madre su Rai 3 alle 20,20.
Il racconto dei media della recente tragedia di Caivano ha fatto emergere in maniera lampante il vuoto di conoscenza delle questioni Lgbt+ e della terminologia relativa, soprattutto per quel che riguarda le persone T ( trans) e la loro condizione.
In un primo momento si è parlato di Maria Paola e di Ciro come di una coppia lesbica, ignorando completamente l’identità maschile di un ragazzo transgender – che la sua stessa mamma chiama con il nome di elezione, Ciro – e che, invece, senza rispetto o con palese ignoranza, i primi servizi televisivi hanno continuato a chiamare Cira, confondendo orientamento sessuale, sesso biologico e identità di genere.
Per le persone trans questa è una grave mancanza di sensibilità, di considerazione e di attenzione nei loro confronti.
Riferendosi alla persecuzione della coppia da parte della famiglia della ragazza, e in particolare da parte del fratello che ne ha procurato la morte, l’odio e il rifiuto delle relazione di Maria Paola con un ragazzo trans sono stati sempre definiti dei servizi giornalistici e televisivi come «omofobia» invece che «transfobia». termine corretto da adoperare in questo caso.
E questo meraviglia ancora di più, visto il gran parlare in tv e sui social, negli ultimi mesi, della proposta di legge Zan di contrasto all’omotransfobia che si spera possa finalmente essere approvata in ottobre.
Pur se, rispetto al passato, la parola «omofobia» è indubbiamente entrata nel linguaggio comune, anche in seguito, purtroppo, alle notizie sulle numerose aggressioni a coppie di persone omosessuali – come dimostrano le ultime violenze ad una coppia di pochi giorni fa a Padova – viene da chiedersi se mai i giornalisti si siano informati sul significato e uso della parola «omotransfobia».
Non è solo un fatto lessicale, ha a che fare con l’approfondimento culturale, con la serietà professionale, con il pregiudizio o con il rispetto verso l’esistenza di milioni di persone, con lo stigma, con l’aggiornamento, con l’informazione corretta.
Le parole sono portatrici di informazioni e senso.
E l’informazione corretta agisce sulla cultura di una nazione, influenzandone la apertura e il progresso e scardinando tabù.
Se parla di fatti che riguardano le persone lgbt+, il/la giornalista deve sapere di cosa sta parlando e quali sono i termini corretti da usare. Chi fa informazione non può essere approssimativo, deve informarsi e, se non conosce o non sa quali termini adoperare, beh, ci sono tante associazioni che possono volentieri dare una mano a comprendere, ci sono tanti testi sull’argomento.
Purtroppo, anche importanti giornalisti televisivi continuano, in tv o sulle riviste, a parlare ancora di «scelte sessuali» sia a proposito dell’orientamento sessuale che della identità di genere.
Decisamente spiazzante e avvilente.
Orientamento sessuale e identità di genere non sono un abito che si può o non si può scegliere, sono la propria natura, la propria identità, una delle sfaccettature della propria naturale condizione.
Intervistando un’amica della povera Maria Paola, il giornalista, in un servizio di una nota trasmissione televisiva, avendo appreso che questa amica è lesbica e ha una compagna, le ha chiesto: «Ma i tuoi genitori sanno che tu sei …?». E non è riuscito a completare la frase, perché non sapeva quale parola usare.
Ecco appunto, non sapeva.
Cosa possono fare associazioni e singoli cittadini? Informarsi, comunicare correttamente, sui social utilizzare la terminologia appropriata e non stancarsi di spiegare e invitare anche i professionisti dell’informazione a essere corretti, se necessario scrivendo loro messaggi costruttivi e lettere aperte.