Iniziamo oggi un ciclo di approfondimenti su Dante Alighieri in occasione dell’“anno di Dante”.

Sono 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, uno dei padri della letteratura e della lingua italiane. In realtà i 700 anni saranno il 13 settembre, ma nel 2021 in tutta Italia ci saranno eventi, manifestazioni e approfondimenti virtuali per festeggiare il letterato. Abbiamo pensato: perché non realizzare una serie di articoli sul tema Dante for dummies?

Partiamo da un fatto social degli ultimi giorni.

L’Accademia della Crusca ha avviato un’iniziativa lodevole sui propri canali social, lanciando l’hashtag #ParolaDiDanteFrescaDiGiornata: in pratica, ogni giorno c’è una parola contenuta in una delle opere dantesche. A volte si tratta di parole forbite, eleganti, altre volte di termini che normalmente considereremmo volgari (come questo), ma che ora abbiamo la scusa di usare perché ehi, l’ha scritta perfino Dante.

La lingua di Dante è davvero bellissima in tutte le sue forme. È lessicalmente ricca, è evocativa. E “canta” lungo una serie di opere dai registri più disparati, che abbracciano il Dolce Stil Novo per poi abbandonarlo e dedicarsi a generi letterari completamente differenti. Si spazia e si viaggia insomma, dalla Commedia alla tenzone con Forese Donati.

Giorni fa, leggevo su un gruppo di qualche canale social come un utente avesse scaricato la Divina Commedia per leggersela sullo smartphone, in modo da fare a meno delle note. Il nodo delle note è interessante: abbiamo bisogno delle note per leggere Dante ma spesso anche no. La lingua di Dante è infatti molto vicina alla nostra: con un buon dizionario e una vasta cultura generale (per via dei riferimenti culturali in particolare all’interno della Commedia) potremmo anche farcela (così era almeno fino a qualche anno fa, e dopo capiremo anche perché). Ce la faceva perfino Don Draper in vacanza alle Hawaii, decisamente credibile sulla spiaggia a leggere l’Inferno.

Per capire la ragione del fenomeno, lo dobbiamo analizzare sotto diversi punti di vista. Partiamo dal fatto che l’Italia è una nazione fondamentalmente giovane: l’Unità d’Italia è datata 17 marzo 1861, mentre la Dichiarazione di Indipendenza statunitense, per esempio, è più antica, è del 4 luglio 1776. L’Italia (così come gli Stati Uniti), intesa come territorio italico, ha però una storia millenaria. Dal punto di vista politico-linguistico però, una volta cessata di esistere la koinè latina dell’Impero Romano d’Occidente con la deposizione di Romolo Augustolo nel 476, ci si è iniziati a porre la questione della lingua prima ancora di costruire una nazione.

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Si sono susseguite nel tempo diverse ipotesi: chi ha creduto che l’italiano fosse da ricercarsi nella lingua letteraria del Trecento, chi che ci si dovesse «sciacquar i panni in Arno». In realtà, il dibattito sulla lingua entrò nel vivo, proprio con l’idea che la lingua dovesse fondarsi su quella dei grandi trecentisti (Dante, Petrarca e Boccaccio): ne parlò Pietro Bembo nel suo Prose della volgar lingua, datato 1525. 

Come avrete capito, il dibattito sulla lingua italiana è proseguito fino a Romanticismo inoltrato, e questo probabilmente ha causato anche un certo ritardo dell’Italia sull’esplorazione di alcuni generi letterari e dei loro contenuti: confrontare Alessandro Manzoni con Walter Scott (la cui opera era di poco precedente) è impietoso, figurarsi paragonare Manzoni con il coevo Lev Tolstoj, come fece invece Antonio Gramsci, riscontrando il paternalismo nella scrittura di Manzoni. Per cui, il dibattito della lingua, benché vivace, ha segnato un rallentamento nei cambiamenti della stessa lingua, che era confinata in pochissimi registri stilistici e in una dimensione diamesica in cui l’identità dei canali era quasi perfetta.

Fino a qualche anno fa quindi, questo immobilismo della lingua italiana ci ha permesso di leggere Dante quasi con la stessa facilità con cui lo facevano i suoi contemporanei. Oggi è probabile che non sia del tutto così: l’italiano medio, smarrito non nella «selva oscura» ma nella miriade di linguaggi settoriali e di registri stilistici, sta impoverendo il suo linguaggio dando corso a ciò che era stato preconizzato da Pier Paolo Pasolini, con una spiccata valenza sessista tra l’altro. Non è più la lingua di Dante cui ci rifacciamo per comunicare, ma i gerghi locali del triangolo industriale Milano-Torino-Genova. Sebbene in futuro è probabile che questa tendenza cambi, è altrettanto possibile che l’asse linguistico si sposti dal Nord al Sud: niente più Toscana, ma forse si torna lì dove tutto è partito, dalla corte di Federico II.

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