Fare della fotografia una professione, e metterci tutta la passione possibile. È questo il traguardo raggiunto da Claudia Candido, che intervistiamo per voi.

di Paolo Merenda

L’intervista che stiamo per proporvi è stata realizzata a Claudia Candido, nata nella città eterna a cui, dopo lunghi viaggi e periodi vissuti altrove, è ritornata. A Roma è socio e membro del Direttivo di Fnur (Fotografi Naturalisti Università di Roma) dal 2004, e tiene corsi di fotografia e postproduzione digitale anche all’estero.

La sua formazione, grazie alla laurea con lode in Musicologia, l’aveva portata a fare la musicologa con una carriera non da poco: dieci anni come consulente musicale televisiva tra programmi delle maggiori reti italiane, tra Rai, Mediaset e Sky, ma poi la passione per la fotografia le ha fatto superare l’antica paura di lasciare un posto stabile per inseguire i suoi sogni e farne un mestiere.

Adesso, complice i temi naturalistici che predilige, fa anche la guida di viaggi fotografici in Sud America, specialmente Bolivia, Cile, Perù ed Ecuador. Alcuni suoi scatti sono comparsi su riviste specializzate e ha avuto mostre personali in giro per lo stivale.

Come ha cominciato a occuparsi di fotografia? Ci sono stati dei corsi o degli incontri che le hanno aperto la mente?

La passione per le immagini risale al tempo dell’infanzia e ha origine da due aspetti che ho ben presenti: il mio amore per la Natura e la mia imbarazzante mancanza di memoria! Quando ero piccola vivevo in campagna e avevo fortunatamente la libertà di poter passare molto tempo (da sola o in compagnia dei miei cani) in luoghi emozionanti: prati, boschi dove potevo osservare e stupirmi della continua trasformazione di tutte le cose; il cambiare delle stagioni, il ciclo delle piante, la vita di molti animali. Vivevo in Abruzzo, ai piedi del Gran Sasso e in quel paesaggio collinare i colori e le luci dei vari momenti dell’anno erano davvero stupefacenti. Tutta questa bellezza effimera e cangiante suscitava la mia meraviglia e anche il desiderio di non dimenticarla, di poter fermare qualche istante per me prezioso. Così ho iniziato per gioco, ma molto presto, fotografando gli animali a cui ero affezionata, quelli che incontravo nelle mie incursioni solitarie nei boschetti, fotografando anche i momenti importanti della mia vita e quella dei miei cari. La passione si è strutturata negli anni grazie a dei maestri eccellenti che mi hanno permesso di seguirli sia in bottega che sul campo. Sono stati vari gli insegnanti a cui sono grata, che hanno valorizzato la mia passione guidandomi nella tecnica, nella pratica, nell’esperienza di imparare a leggere insieme a loro la luce e il cuore di ogni immagine. Ricordo con tanto affetto e gratitudine anche i maestri che non ci sono più, in particolare il grande fotografo naturalista Giuseppe Del Boccio, di Sulmona, uno “zio” adottivo che mi ha sempre spronato, insegnato, consigliato e soprattutto, ispirato. Non ho quindi inizialmente seguito corsi in scuole di fotografia, ma sono cresciuta nella mia passione da autodidatta e lavorando direttamente sul campo accanto ai professionisti. In seguito, quando la passione è diventata una professione, mi sono specializzata con master e corsi dedicati e orientati sulla fotografia naturalistica, il reportage di viaggio, il ritratto non posato e la post-produzione digitale. Ad ogni modo, in un ambito come quello fotografico dove il linguaggio si rinnova continuamente (di pari passo con le innovazioni tecnologiche) il lavoro di aggiornamento non finisce mai.

Salar Uyuni, Bolivia
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Quali sono i temi che tratta attraverso la fotografia e che la colpiscono maggiormente?

Ciò che mi interessa è la complessa danza dell’esistenza di tutto ciò che è vivo e muta: animali umani, non-umani, vegetali. Mi appassiona essere testimone di un gesto, di un’azione, di una sequenza, di incastri sempre unici e irripetibili disegnati dalla luce. Soprattutto mi interessa ritrovare il senso della meraviglia grazie ai miei soggetti. Ciò che forse più riesce a meravigliarmi è la Natura intatta. Tendo quindi a prediligere, quando posso, scenari in cui l’uomo, se presente, lo è nella maniera più discreta possibile. Ma sono altrettanto motivata a conoscere culture diverse dalla mia, modi di vivere legati ad altre tradizioni, altri ritmi. Mi piace guardare negli occhi le persone che incontro, e possibilmente, scambiare un sorriso, un gesto di amicizia, condividere qualcosa, prima ancora di fotografare. Solo dopo nascono delle storie da raccontare attraverso le immagini.

Come sceglie i soggetti?

Non saprei dire con certezza se sono io che scelgo i soggetti o i soggetti che scelgono me. Indubbiamente quando fotografo su commissione la scelta è indirizzata dal committente. Ma quando posso esprimermi liberamente scelgo sempre di fotografare i soggetti che amo. In fondo, non faccio altro che prestare gli occhi alla luce che i miei soggetti diffondono e mi rivelano.

Ha fatto del viaggio uno stile di vita: qual è il luogo che le è rimasto nel cuore?

I luoghi del cuore sono tanti. In ogni viaggio credo di averne lasciato un pezzetto. Forse però eleggerei la Bolivia a luogo che più di ogni altro mi ha sorpreso ed entusiasmato. Purtroppo il mondo cambia in fretta, non necessariamente in meglio. Ecco… quando penso che molti degli scenari che ho fotografato già non esistono più, cambiati inesorabilmente in una manciata di anni, mi assale un grande senso di malinconia.

Nel confrontarsi con altre realtà, è stata protagonista di qualche episodio particolarmente bizzarro?

Be’, tra gli episodi bizzarri raccontabili, tralasciando dunque quelli più assurdi o troppo irriverenti, potrei forse annoverare un’esperienza abbastanza singolare che mi è capitata proprio in Bolivia, quando sono stata “dimenticata” per errore nel recinto dei coati. Ero a Samaipata, in un rifugio per il recupero di animali selvatici feriti o soccorsi. Previo accordo con i responsabili, ero entrata con la mia attrezzatura fotografica in una enorme recinzione-gabbia dove alloggiavano 4 coati, dei procionidi. I coati per noi occidentali sono animali tanto buffi quanto sconosciuti: come i cani corrono, hanno denti e muso allungato, un naso sporgentissimo, si arrampicano come scimmie e hanno una notevole abilità manuale. Appena entrata nel recinto-gabbia me li sono trovati tutti attorno e in men che non si dica tutti addosso. Uno aggrappato in testa, uno sulle spalle, sopra lo zaino, uno in braccio che indagava con le unghiette – anzi, unghione – il mio obiettivo (leccandolo e prendendosi il tappo) e un altro sulle scarpe abbarbicato ai pantaloni. La responsabile mi aveva raccomandato di stare a distanza mettendomi in guardia perché secondo lei rischiavo di essere morsa, e quando li ho visti procedere di corsa tutti su di me, ammetto di aver provato 10 secondi di timore. Ma sono stati subito affettuosissimi e curiosissimi di tutto quello che avevo, del mio odore, della forma delle mie braccia ispezionate attentamente, dei miei capelli. In breve, il mio cappello e il tappo del grandangolo erano spariti. Distratta da tanta partecipazione, mi sono persa beatamente dietro alle foto (e non solo: ero entusiasta di poter osservare con calma questi animali mai visti prima) e non mi sono accorta che per i custodi del rifugio si era fatta ora di pranzo… Non c’era nessuno tranne me in quel momento, la responsabile che mi aveva dato l’accesso era andata via e un custode, non sapendo della mia presenza, aveva pensato bene di chiudere a chiave l’uscita sequestrandomi nella gabbia per 5 ore. Ho provato in quel pomeriggio l’orribile sensazione che drammaticamente vivono per tutta la vita gli animali reclusi. Le scimmie, libere al di fuori, mi guardavano perplesse. Una, davvero gentilmente, mi ha pure offerto un pezzo di frutta passandomela tra la rete! La strana attrazione per loro in quel momento ero io… Per fortuna, ormai al tramonto, una volontaria del rifugio mi ha sentita e liberata, giusto in tempo per trovare un ultimo mezzo e arrivare in paese per cena.

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