La danza nera di Mauro John Capece è una pellicola coraggiosa, che ci ricorda quanto il cinema italiano sia stato grande.

L’Italia è quel Paese in cui si fanno i film sul cinema italiano che fu. In altre parole si dice la messa in suffragio di un cinema che non c’è più e che invece era un ricco prisma pieno di colore. Tra gli anni ’50 e i primi anni ’80, il Belpaese fu culla di registi straordinari: per chi non c’era, quei registi (ma anche gli attori che furono protagonisti delle loro opere) vengono citati o raccontati da pellicole come Latin Lover di Cristina Comencini oppure Notti magiche di Paolo Virzì, ma l’impressione complessiva è quella di un grande cinema che difficilmente ritornerà. Certo, ogni tanto spunta qualche perla cinematografica anche nel panorama italiano, ma a parte di qualcosina, spesso a carattere celebrativo, non ho mai visto nulla che volesse avvicinarsi davvero a uno dei generi che hanno fatto grande il cinema italiano.

O almeno non l’avevo visto finora.

Ho guardato La danza nera di Mauro John Capece, che tra l’altro è dedicata a Pier Paolo Pasolini, uno dei cineasti italiani che maggiormente diede corso a quel cinema impegnato di cui parlavo. Il film purtroppo non lo potremo vedere al cinema, causa pandemia, ma è disponibile a noleggio su Chili e su TheFilmClub.

Scusatemi se oltre al lungo preambolo faccio una premessa personale. Non so se vi è mai capitato di avere alte aspettative su qualcosa. Quando io ho avuto alte aspettative su qualche film, molto spesso sono state deluse. Ho seguito la lavorazione, le premiazioni e poi l’uscita de La danza nera con trepidazione: ho avuto quasi paura a cliccare su «noleggia». Temevo che le mie aspettative non sarebbero state soddisfatte. E invece non è andata affatto così, perché il film mi ha tenuta letteralmente incollata allo schermo per poco più di un’ora e mezza. E vi assicuro che non accade tanto facilmente, perché ho una certa tendenza alla dispersione e ad annoiarmi.

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Partiamo dalla trama, ma non vi svelo troppo. La protagonista del film si chiama Manola (Corinna Coroneo), ha due lauree e fa la ballerina in un piccolo ma suggestivo teatro di provincia, in cui il direttore artistico (Franco Nero) è stato scelto dal sindaco (Flavio Sciolè). Il direttore artistico è decisamente tendente allo sfruttamento dei lavoratori culturali, e questo suscita la rabbia e la frustrazione di Manola – costretta dalla povertà a vivere in una roulotte e sola perché orfana – il cui lavoro non viene riconosciuto. La sola cosa che le dà gioia è il rapporto con la sua compagna, ma anche quella gioia è limitata dal fatto che le due donne non possono vivere la loro storia in libertà, dato che la compagna è restia a fare coming out. Per cui dopo varie vicissitudini, che non aggiungo perché già ho detto troppo, Manola decide di compiere un gesto estremo: rapire il sindaco che intanto si è appena candidato alla Camera dei Deputati.

Vi dico solo che il finale è particolarmente significativo. E non so se questo film mi ha toccata così nel profondo per una questione di tematica trattata o c’è dell’altro. Vi posso dire le cose che ho apprezzato. Innanzi tutto c’è la tecnica cinematografica: Capece ha deciso deliberatamente di discostarsi dal cinema italiano di oggi e riprendere in mano quello di ieri (tranne in un fattore, almeno all’apparenza), pur realizzando un’opera assolutamente originale. La fotografia, la tecnica narrativa, perfino la qualità dell’immagine è retrò. Ma questo è un plus. Ciò che appare discostarsi dai vecchi film è il ritmo, ma probabilmente è qualcosa solo di apparente: quando vediamo film come Salò o Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto percepiamo che il ritmo è differente dai film che mediamente approdano oggi nelle sale cinematografiche, ma ciononostante ci avvincono di più, ci interessano maggiormente e, come La danza nera, ci tengono incollati allo schermo.

Io credo che sia molto coraggioso girare un film del genere, in Italia e soprattutto oggi. È coraggioso perché non è facile allontanarsi da quello che fanno tutti, parafrasando Robert Frost, e «prendere la strada meno battuta». Osare in questo modo è come fare un grande complimento al pubblico, perché gli si sta dicendo tra le righe che merita di meglio di ciò che mediamente ha da televisione e cinema molto molto mainstream.

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