Trainspotting è stato uno dei film più importanti degli anni ’90 e c’è una ragione per cui lo è.

Il cinema degli anni ’90 ci ha regalato delle perle immense, anche in quel di Hollywood, dove il cinema d’essai non è troppo spesso di casa. È stato in questo decennio che sono emersi registi come David Fincher, P.T. Anderson, Wes Anderson, Sofia Coppola e molti altri. Accadeva negli Stati Uniti, ma non è che dall’altra parte dell’Atlantico mancassero idee e talenti. Dall’italiano Paolo Virzì al serbo-bosniaco Emir Kusturica (che a onor del vero aveva già esordito negli anni ’80), fiorivano capolavori come La cena dei cretini in Francia, La fiammiferaia in Finlandia, Tutto su mia madre in Spagna. E Trainspotting nel Regno Unito. Il 23 febbraio 1996 la pellicola di Danny Boyle usciva nelle sale della madrepatria, per deliziare gli scozzesi ma non solo. 

Qual è il segreto del successo di Trainspotting? Abbiamo provato ad analizzarlo in alcuni punti.

La droga senza la metafora né la disperazione
Il ritratto della droga al cinema è stata sempre di due tipi: o veniva legata all’emarginazione dei protagonisti (pensiamo a Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino e Amore tossico per esempio), oppure era metaforica (come nel magistrale The Addiction di Abel Ferrara, uscito appena un anno prima di Trainspotting). Per la prima volta, la droga ci viene raccontata in maniera abbastanza nuda e cruda. I protagonisti sono eroinomani non perché spinti dalla disperazione, non tutti almeno. La disperazione è la molla che muove Tommy, ma gli altri sono mossi da stupidità (Spud), estetismo (Sick Boy) e ricerca del piacere (Rent). Il ritratto è assolutamente realistico e lontano dalla classica visione paternalistica della dipendenza da stupefacenti.

La colonna sonora
Come sparare sulla Croce Rossa e beccare tutte le crocerossine compresa la compagna di scuola di Candy Candy. Le musiche di Trainspotting sono confluite in un disco fantastico (io stessa dovrei averne una copia, da qualche parte), una compilation che era al tempo stesso bella in sé per sé, ma anche evocativa di determinate scene. Una in particolare.

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Le location misteriose
Nell’immaginario collettivo, il Regno Unito è Londra. Ma, di tanto in tanto, pellicole come Trainspotting per la Scozia (e magari Pride per il Galles o la serie Derry Girls per l’Ulster) ci ricordano come il Regno Unito sia una nazione affascinante ed eclettica. Prima che ci girassero Game of Thrones, molti di noi hanno conosciuto la Scozia attraverso gli occhi di Mark Renton e soprattutto grazie alla visione della peggiore toilette della regione.

Francis Begby
Robert Carlyle non interpreta un tossicodipendente in Trainspotting, ma il suo personaggio è sicuramente il più significativo di tutti (soprattutto se avete visto anche il sequel T2). Sicuramente Trainspotting ha giovato alla carriera dell’attore, che l’anno dopo è comparso nell’altrettanto iconico Full Monty.

Le maschere
I volti degli interpreti di Trainspotting restano impressi nella memoria. L’esempio di Carlyle è emblematico, perché in qualunque film abbia fatto successivamente è difficile associare il suo volto a quello di Begby. Viceversa, Ewan McGregor si è portato appresso il marchio di Mark Renton e lo stesso si può dire di Ewen Bremner: sia che reciti per Guy Ritchie, sia che lo faccia per Woody Allen o per Frank Oz, il suo resta per sempre il volto di Spud (lo vedrei bene però in un live action del cartone francese Manu). 

La droga fa ridere?
L’approccio di Trainspotting è assolutamente inedito. Sono tante le scene ridicole o semplicemente divertenti che lo spettatore si ritrova a vedere sullo schermo. La diarrea di Spud, la ricerca delle supposte di metadone, le violenze barocche di Begby. Trainspotting fa ridere su argomenti su cui normalmente non rideremmo: è quel rovesciamento che l’ironia produce, talvolta senza suscitare il sorriso ma stavolta sì.

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