Lawrence Ferlinghetti non c’è più: in Italia la notizia è giunta solo oggi, e noi non possiamo fare a meno di ricordarlo.

Lo so, il titolo di questo post sembra una striscia di ZeroCalcare che si intitola Quando muore uno famoso. Non voglio mica parlare di Uan, oscuro stalliere di Arcore, ma di Lawrence Ferlinghetti, sommo Poeta che nei giorni scorsi ci ha lasciati alla veneranda età di 102 anni. La stessa età che aveva il dottor Albert Hoffman, cui il movimento hippie e la stessa Beat Generation dovevano molto, quando scomparve.

Non riesco a immaginare come sia stata straordinaria la vita di Ferlinghetti, e non solo perché è probabilmente uno dei pochi poeti al mondo da aver vissuto abbastanza a lungo da vedere i cambiamenti della società e come essa sia riuscita a comprendere il suo genio. Quando fondò City Lights, la casa editrice che fu travolta dalle polemiche (e non solo) per la pubblicazione di Urlo di Allen Ginsberg, forse la sua strada non sembrava tanto in discesa. Ma era questo che i poeti beat volevano fare: cambiare il mondo, renderlo un posto migliore. E lo fecero, riempiendolo con la bellezza dei loro libri e una vera e propria rivoluzione sessuale.

Ferlinghetti per me è stato sempre il poeta della spontaneità. Del vedere cosa si nasconde dietro il velo di Maya. Quando ero triste, mi rifugiavo in una delle poesie contenute in un’edizione economica Newton Compton – perché noi giovani degli anni ’90, diciamocelo, siamo stati fortunatissimi, tra Newton Compton e Stampa Alternativa, siamo riusciti a leggere tantissimo materiale con i pochi soldi di paghette e lavoretti pomeridiani. 

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Essere adolescente e amare la Beat Generation era quasi un passaggio obbligato. Ognuno amava uno o più poeti di preferenza. Molti affermavano di amare Jack Kerouac, che io non ho mai capito a fondo: alcuni non avevano neppure letto Sulla strada, mentivano semplicemente, anche se a me, ad esempio, piaceva e piace Solitudine messicana.

Se mi ubriaco mi viene sete
– se cammino il piede mi cede
– se sorrido la mia maschera è una farsa
– se piango non sono che un bambino
– se mi ricordo sono bugiardo
– se scrivo la scrittura è passata
– se muoio il morire è finito
– se vivo è appena cominciato
– se aspetto l’attesa è più lunga
– se vado l’andare è andato
se dormo la beatitudine è pesa –
mi pesa sulle palpebre –
– se vado a un cinema da poco prezzo
mi assalgono  le cimici –
I costosi non me li posso permettere
– se non faccio niente
niente fa

Io ero più da Allen Ginsberg. Urlo, ma anche e soprattutto Kaddish, il canto funebre del suo popolo che Ginsberg (ri)scrisse per la madre. Me lo ricordo bene quando morì Ginsberg.

Mi ricordo anche di quando morì William S. Burroughs. Dopo la scomparsa di Fernanda Pivano, che si occupò di tradurre i loro versi e le loro storie, di portarli in Italia e di farli giungere fino a noi, Ferlinghetti era uno degli ultimi portavoce di quella grande generazione. Anche Diane DiPrima ci ha lasciati lo scorso autunno. 

Ma probabilmente è vero: ogni poeta sopravvive per sempre, nei propri versi.

Qualche tempo fa ho realizzato questo video. Non sono una brava lettrice, ma questa è la mia interpretazione della poesia che amo di più di Ferlinghetti. Come si fa a dire «che la terra ti sia lieve» a uno che si aspettava da un momento all’altro il beccamorto e poi se n’è andato a 102 anni e dotato di una lucidità estrema? Si dice invece: «ci vediamo dall’altra parte».

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