La consapevolezza di cosa sia realmente un brand, un cartone animato, un telefilm o un personaggio in particolare passa attraverso il modo in cui i ricordi arrivano a noi.

di Paolo Merenda

Qualche giorno fa mi trovavo a realizzare un’intervista (che potrete sentire a breve su TheRoom tra i miei podcast nella sezione Compagni di Merenda) e mi ha colpito una frase dell’intervistato, ovvero che le sigle dei cartoni animati sono arrivate a noi molto più che i cartoni in sé: se dici a un sedicenne «si trasforma in un razzo missile…» ti risponderà «… con circuiti di mille valvole». Quasi non sa di cosa si stia parlando, ma conosce la sigla e la risposta è a suo modo un riflesso pavloviano. Tra l’altro, il testo è di Luigi Albertelli, che ci ha lasciato pochi giorni fa, il 19 febbraio 2021, a 86 anni, dopo aver scritto molte canzoni anche per Nada, Mia Martini e Mina, tra gli altri.

La sigla di Goldrake, dicevamo, è arrivata a noi molto più che il robot stesso. Ma a cosa è dovuto?

Al livello di conoscenza, all’aver vissuto ed essere entrati nel mondo di cui si parla. Questo livello può essere misurato con due fattori: passione, voglia di dedicare del tempo a quello o quell’altro marchio, e soprattutto età anagrafica. Mi spiego meglio con un esempio pratico.

Se si chiede a un trentenne chi sia Ken il guerriero, o è un figlio di astronauta nato su Marte e lì rimasto specialmente dal 1987 in poi (anno del primo passaggio italiano del cartone), o gli si allargheranno gli occhi e dirà “certamente”. Fin qui la reazione quasi univoca, ma quanto lo conosce (con le dovute eccezioni) un trentenne, rispetto a un quarantenne? Se di Ken ricorda il vestito blu che si strappa quando si arrabbia e le stelle sul petto, non è detto che la sua risposta mentale sia la stessa di chi ricorda la commozione nel momento della morte di Toki, o quella di Raoul nello scontro finale, una volta raggiunta la consapevolezza che il fratello Kenshiro l’avrebbe battuto. Ma, come icona, non si può negare che Ken il guerriero sia rimasto impresso nella mente di entrambi i tipi di persone.

La vera differenza è il modo in cui ricordiamo i programmi che guardavamo da piccoli, e cosa ci hanno lasciato in termini di emozioni. È un grado diverso di immedesimazione, per cui la risposta non è tutto o niente come gli interruttori della luce. Almeno per i nomi più conosciuti, ma ora ve ne faccio altri.

Gli Snorky, il robottone Gordian o Godsigma, altro robot e mio cartone animato preferito in assoluto di quand’ero bambino. Ecco, cosa vi dicono? Sono marchi invecchiati peggio rispetto a Ufo Robot, forse per qualche passaggio televisivo in meno, forse per l’offerta aumentata sempre più nel corso del tempo e che ha lasciato indietro alcuni pezzi della nostra vita. Ma sono più da tutto o niente (sigle escluse, quelle rimarranno comunque nella memoria di un maggior numero di persone) e, per quelli che li conoscono, quelli a cui si è accesa la lampadina, significano molto.

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Per ogni Coccinella (e se vi si è accesa la lampadina a questo dimenticato titolo degli anni ‘70 e trasmesso per l’ultima volta in Italia nel 1996, siete dei nerd dei cartoni animati) c’è un Yattaman, un Gigi la Trottola, un Holly e Benji, di cui ora ci sono persone più o meno esperte. Perfino per il celebre Holly e Benji, una cosa è conoscere la catapulta infernale dei gemelli Derrick da un breve filmato Youtube e un’altra aver visto le partite senza fine tra New Team e Muppet, puntata dopo puntata.

Non è un discorso applicabile solo ai cartoni, ovviamente: A-Team, Supercar, MacGyver (vincitore anche di un Telegatto, in Italia, dato a Richard Dean Anderson da un’Antonella Elia a cui non pareva vero di avere MacGyver davanti) li conosciamo un po’ tutti, ma la domanda torna: quanto? I meme dei social network hanno aiutato, a loro volta, come anche per La signora in giallo, con protagonista una bravissima Angela Lansbury (che, ricordiamo, a 95 primavere è un anno più anziana della regina Elisabetta e potrebbe tecnicamente sopravviverle). Ma le puntate di Jessica Fletcher, scrittrice con l’hobby di fare la detective e che dove si presentava moriva qualcuno, vengono viste da un pubblico sempre più esiguo.

Il tempo funziona come una serie di veli: nel momento in cui viene creato qualcosa, è nuovo e ben visibile. Poi, però, un sottilissimo, quasi impalpabile, velo, viene poggiato sopra. Dell’oggetto si vede il 99%, è tutto lì. Poi un altro velo, e un altro, e un altro ancora. Finché, se passa abbastanza tempo, l’oggetto scompare e al suo posto rimane uno spesso lenzuolo, sotto cui si indovinano forme indistinte.

Con qualche eccezione che squarcia il velo: I Robinson, con Bill Cosby, è stato importante a livello sociale, come anche il precedente I Jefferson, ma essendo arrivato dopo è conosciuto da più persone, oggi, grazie a un semplice calcolo anagrafico e agli eventi che hanno riportato sui giornali Cosby. Alcuni pezzi che man mano si stanno perdendo, invece, sono Super Vicki e L’ispettore Derrick (nonostante l’ultimo dei 4 Telegatti vinti risalga “solo” al 1999), e non c’è motivo apparente per cui la robottina tuttofare dalle sembianze umane, Vicki, sia diventata meno iconica rispetto a Supercar, ad esempio. Qualche passaggio televisivo in meno e i veli del tempo hanno fatto il resto.

Come ho detto, ciò non ha un solo campo di applicazione, anzi ce n’è uno abbastanza recente: Diego Armando Maradona. Il fuoriclasse argentino, patrimonio del calcio, è venuto a mancare il 25 novembre 2020, ed è stato ovviamente ricordato da tutti. L’ho visto giocare dal vivo, e gli occhi sono diversi da chi lo ha riscoperto quando ormai la carriera in campo era finita. Anche se, devo aggiungerlo, di quel Napoli mi stupì Alemao più che il Pibe de Oro: nelle progressioni in attacco, se seguivo dagli spalti la palla per un istante perdendomi il brasiliano, lo trovavo nell’area avversaria. Ogni volta mi giravo verso mio padre, con cui andavo allo stadio, e gli chiedevo: «E come c’è finito lì? Un attimo fa era a centrocampo». Ma quella è la magia del calcio quando giocava Maradona, ed è un’altra cosa.

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