Barton Fink dei fratelli Coen è uno di quei film che meritano più di una visione, già da subito.
Con pochissimi film mi capita di sentire il bisogno o la voglia di rivederli immediatamente dopo i titoli di coda. Uno di questi è Barton Fink – È successo a Hollywood dei fratelli Coen, che prende in esame una storia apparentemente abusata, ma sempre affascinante: il patto col diavolo per l’ottenimento del successo. La storia di Barton Fink è però ben più complessa e probabilmente ha affascinato registi e sceneggiatori: difficile immaginare che un certo elemento presente in Seven non affondi le sue radici in un elemento molto evocativo e misterioso presente in Barton Fink.
Barton, che dà il nome al titolo, è un drammaturgo newyorkese. Gli piace scrivere di persone umili, come pescivendoli, e ha appena ottenuto un enorme successo in teatro. Così la Capitol Pictures, casa di produzione cinematografica, lo vuole mettere sotto contratto, allettata dal riscontro di pubblico in teatro. Ma Barton non è mai stato a Los Angeles, è mosso da una specie di superbia per cui il suo lavoro è importante perché mette in risalto l’uomo della strada, ma in realtà vuole avere fama e successo, oltre che attenzioni, nonostante l’apparente mood tormentato e sensibile. Gli viene affibbiato un film sul wrestling, ma ha il blocco dello scrittore, anche se varie persone cercano di aiutarlo: l’amico Charlie, appena conosciuto tra i residenti del suo albergo, il collega W.P. Mayhew e l’amante (e ghostwriter) di quest’ultimo, che per una notte diventa l’amante di Barton.
Nel cast John Turturro, John Goodman, Judy Davis e John Mahoney, oltre che un algido Steve Buscemi in un minuscolo ruolo.
La storia alla base di Barton Fink tratta, fuor di metafora, il patto col diavolo: come già altri scrittori, Barton chiede inconsapevolmente al demonio di avere successo, o meglio di scrivere una grande opera. In cambio, il diavolo avrà il suo tornaconto. La scena del patto non si vede, non come avviene ad esempio durante la lettura di La tragica storia del Dottor Faust di Christopher Marlowe, in cui il lettore riesce a immaginare letteralmente il serpente con le sue spirali.
Barton è in un circolo vizioso: al di fuori della sua vita, alienato da una città che non conosce e non riconosce, si rifugia nell’amicizia con il vicino Charlie, ma tutto ha un prezzo. La sua camera d’albergo è sempre più claustrofobica: in effetti c’è un caldo d’inferno, le mosche abbondano e i vicini di stanza fanno continuamente sesso, tanto che le pareti grondano di umori al punto di far staccare la carta da parati. Tutto ciò che Barton può fare è fissare il quadro con la pin up di spalle sopra la sua scrivania, e poi fissare la macchina per scrivere con quell’eterno foglio bianco.
Ma in fondo è davvero questo che conta? È il 1941, la guerra incombe perfino su Hollywood, e il suo produttore è deciso: lo tiene incatenato al suo contratto, così come il diavolo lo ha vincolato al proprio patto. E alla fine a Barton non resta che vagare per Los Angeles con una scatola misteriosa. Cosa contiene la scatola? David Fincher avrebbe forse un’idea, che come accennavamo prima è stata forse esposta in Seven. Ma forse il contenuto della scatola simboleggia la propria anima, la propria parte buona. «La mia roba starebbe in una scatola più piccola di quella» dice Barton a Charles, che in effetti è il proprietario della scatola. Ma lo spettatore non ne è poi così sicuro. Perché forse Charles è un emissario del demonio oppure il diavolo in sé. Ma non importa.
Barton Fink è un film dall’estetica affascinante, in cui seguire la trama è secondario. I Coen, come spesso accade nei loro film, ci raccontano una storia, ma lasciano anche ampi spazi all’interpretazione. Ovvero fanno allo spettatore il più grande complimento che gli si possa fare.