Ognuno di noi sa delle cose e si è fatta un’idea su La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. E questa è la mia.

Credo che sia normale che La Grande Bellezza abbia vinto l’Oscar. Da un lato gli americani sembrano andare matti per tutto ciò che non si capisce (e che non capiscono). Dall’altro gli sarà sembrato di prendersi una sorta di rivincita sulla colta Europa, ma in realtà c’è una tale profondità nel solo Jep Gambardella, da rendere la sua corte dei miracoli un mero divertissement che trova ben presto la risoluzione del proprio personaggio (come se la storia, o almeno la loro storia, sia conclusa del tutto, una sorta di «e vissero felici e contenti» che diventa «e vissero grigi e indifferenti»).

La grande bellezza de La Grande Bellezza non si palesa all’inizio del film. Dopo 9 minuti di visione allo spettatore viene presentato per la prima volta Jep, dopo l’orrore estetico cui è sottoposto all’interno di continui cambi stilistici nella colonna sonora – uno dei meriti del cinema di Paolo Sorrentino è aver spezzato il senso del ritmo musicale, creando sorprese più che attese. E Jep lo spettatore lo vede dapprima capovolto, come parte di quel mondo alla rovescia. La svolta è però immediata, Sorrentino vuole dire subito chi è Jep, nonostante il film sia lunghissimo e apparentemente molto lento, rispondente a un modo di fare cinema che appare ai più antiquato – in fondo, quanti di noi riescono a vedere Barry Lyndon dall’inizio alla fine oggi? 

«Ero destinato alla sensibilità, ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella».

Di cosa parla La Grande Bellezza? È un film sul dolore, l’alienazione, la capacità che ancora abbiamo di voler bene. Al centro c’è Jep, ramingo per le strade di Roma, osservatore osservato in una società del vizio indifferente a tutto. Accanto a lui ci sono i suoi amici, soprattutto quelli verso cui non può fare a meno di dire la verità, e quindi ci sono continui incontri e scontri, con un cast interessante, eclettico e sicuramente diversificato. Al su interno spiccano Carlo Verdone, in una grande, grandissima prova d’attore, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Giorgio Pasotti, Roberto Herlitzka, Serena Grandi, Massimo Popolizio, Luca Marinelli, Isabella Ferrari, più Fanny Ardant e Antonello Venditti in due camei in cui interpretano loro stessi. Non ho parlato del protagonista? Ci arrivo ora.

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Molti dicono che La Grande Bellezza è un film su quello che siamo diventati. In realtà, molti film italiani degli ultimi venti anni parlano di questo, a partire dal cinema di Paolo Virzì. Sicuramente nei film di Sorrentino c’è una poetica (e una retorica) antica del cinema. A volte, come in questo caso, riesce fortemente a incantare, altre volte non è così riuscita. Sicuramente il sodalizio artistico tra Sorrentino e Toni Servillo, che qui è il protagonista Jep, ma è anche il centro di altri film del conterraneo regista, è davvero molto fruttuoso dal punto di vista umano. Non si può restare indifferenti a Jep, mentre invece i personaggi collaterali annegano, via via che il tempo della pellicola scorre, appunto nell’indifferenza. Forse è per questa ragione che questo film scatena opinioni così contrastanti.

La mia? La Grande Bellezza è un film grandioso, ma non su cosa siamo diventati, ma su cosa siamo sempre stati, ma forse in passato era meno evidente. I social network, l’individualismo, l’iperpresenzialismo, l’egocentrismo sono a un tempo stesso il mezzo e i modi in cui abbiamo preso a esprimerci. Tanto che qualcuno per scrivere su Facebook che questo è un brutto film. Ma ovviamente si sbaglia e La Grande Bellezza parla anche di lui. Non la parte della bellezza (e neppure la parte delle tette, per chi l’ha visto), ma la parte della corte dei miracoli.

«So’ belli i trenini che facciamo alle nostre feste, so’ i più belli di tutta Roma – dice Jep a Trumeau, il personaggio di Iaia Forte – So’ belli. So’ belli perché non vanno da nessuna parte.»

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