Il processo ai Chicago 7 è uno di quei film che ha un grande merito: raccontare al mondo una storia importante perché ha a che fare con la questione dei diritti civili.

Ve la ricordate quella scena di Forrest Gump in cui il protagonista è a Washington in una manifestazione contro la guerra in Vietnam? Sul palco c’è un uomo con una bandiera americana sulla camicia: è particolarmente appassionato e si commuove per qualcosa che Forrest dice ma che in realtà lo spettatore non sente. (Solo da poco si è scoperto che dice: «A volte, quando le persone vanno in Vietnam, tornano a casa dalle loro mamme senza le gambe. A volte non tornano affatto. Questa è una brutta cosa»). Comunque, lo sapete chi è quell’uomo? Si chiamava Abbie Hoffman e noi fan di Stampa Alternativa lo conosciamo bene in un certo senso, perché negli anni ’90 abbiamo letto il suo celeberrimo volume, Ruba questo libro, il cui numero di lettori è ignoto proprio perché molti lo presero giustamente alla lettera.

Abbie Hoffman è uno degli 8 personaggi al centro de Il processo ai Chicago 7. Che sono 8 anziché 7, perché a processo ci andò, ingiustamente poiché non presente ai fatti per cui era imputato, Bobby Seale, il capo delle Black Panther. Il film racconta appunto del procedimento giudiziario nei confronti di diversi attivisti nel campo dei diritti civili che, nell’agosto 1968, protestarono a Chicago durante la convention del Partito Democratico e dopo alcuni mesi furono arrestati: per loro l’accusa era l’aver incitato alla rivolta. Chiaramente uno dei meriti di questo film è aver fatto conoscere al mondo questa storia: soprattutto le giovani generazioni, con l’eccezione degli studenti universitari dei corsi di storia americana, potrebbero aver appreso così di queste figure storiche e di questi fatti, con un film distribuito da Netflix.

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Come per tutte le pellicole a tema giudiziario, lo spettatore non può fare a meno di parteggiare per la parte “debole”, in questo caso gli attivisti che sono oggetto di un certo disprezzo pregiudiziale da parte del giudice – che nella realtà fu “condannato” prima dalla cronaca e poi dalla storia, soprattutto per il trattamento riservato a Seale. La questione dei diritti civili, soprattutto negli Stati Uniti, è un tema di scottante attualità: nell’anno in cui i nomi di Breonna Taylor e George Floyd sono stati pronunciati tante volte per richiamare l’attenzione sul fatto che ogni vita conta, Il processo ai Chicago 7 arriva come una stilettata per ricordarci che i tempi sono cambiati, ma in fondo non sono cambiati poi tanto. Il bavaglio, letterale, a Seale durante il processo è qualcosa di doloroso e agghiacciante. Perché è accaduto davvero, anche se forse qui, dall’altra parte dell’oceano, ignoravamo tutto quanto.

Naturalmente, nella storia non tutto è scontato. Non solo ciò che accade a livello giudiziario, i dubbi di un avvocato che dovrebbe inchiodare gli 8 di Chicago, ma soprattutto nelle storie di chi siede al banco degli imputati. I flashback sono in tal senso fondamentali, perché non solo lo spettatore scopre mano a mano le vicende frenetiche di quei giorni, ma sono i protagonisti stessi a cercare di ricordare cosa avvenne realmente e cosa le loro teste avevano rimosso. E non sempre i cattivi ragazzi sono davvero cattivi.

Il cast artistico de Il processo ai Chicago 7 è fantastico e consta del mio grande amore Sacha Baron Cohen, Joseph Gordon-Levitt, Michael Keaton, Yahya Abdul-Mateen II, John Carrol Lynch, Eddie Redmayne e Jeremy Strong. Regia e sceneggiatura sono invece di Aaron Sorkin, che ha scritto film fantastici come Steve Jobs (quello diretto da Danny Boyle) e The Social Network.

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