La nuova serie Netflix Generazione 56K è una piacevole novità nel panorama italiano, sebbene ricorra a dei cliché.
Ero indecisa se vedere o no Generazione 56K. Intanto pensavo che fosse un film, e quando ho cliccato play su Netflix mi sono resa conto che era una serie. Ma tant’è: non è lunghissima e non solo si lascia guardare ma soprattutto è piacevole da vedere. Estremamente piacevole. Non un capolavoro, ma una gradita novità in un panorama italiano che snocciola solo polizieschi (Don Matteo compreso) e serie sulla criminalità organizzata, a parte qualche incursione sul fantasy che ho letteralmente snobbato.
Però essendo fan di The Jackal non potevo non provare a guardare Generazione 56K. La storia non mi è particolarmente congeniale, perché punta a un’identificazione con lo spettatore e io a quella generazione lì proprio non appartengo, perché purtroppo sono più vecchia. Parla di un programmatore, Daniel, che non riesce a venire a capo della propria vita sentimentale: una sera incontra una coetanea che però gli ruba il cuore. Lui crede si chiami Magda, perché era la ragazza che doveva incontrare grazie a un’app, ma invece è una sua vecchia amica di infanzia, Matilda. È l’inizio di una commedia sentimentale degli errori, costellata da diversi personaggi: ci sono gli amici dell’uno e dell’altra, c’è il fidanzato di lei, Enea, in procinto di sposarla mentre si occupa dei ragazzi delle periferie sfortunate, ci sono dei genitori che sono modelli oppure fonti di conflitto, e c’è un barista, che conserva i segreti dell’isola in un bottiglione di vetro fino alla sua morte. E che in un certo senso è il deus ex machina.
Perché Generazione 56K attinge al moderno ma anche all’antico. C’è la descrizione abbastanza fedele di una generazione che per prima ha avuto a che fare nel bene e nel male con il mondo digitale. Ma ci sono strutture narrative che sono antiche, quella del deus ex machina ovvio, ma anche quella della ragazza della porta accanto, quella che ogni bravo ragazzo vorrebbe sposare, o almeno conoscere. Daniel e Matilda si guardano attraverso la finestra come farebbero Archie e Betty ma anche Ricky Fitts e Jane Burnham, che tra l’altro sarebbero anche loro coetanei.
E ci sono due luoghi magici che fanno da sfondo alla storia, ma che forse sono personaggi essi stessi. Da un lato Napoli, quella di oggi, quella del presente, dall’altro Procida, quella dei flashback ma anche di un brusco ritorno alla contemporaneità. La serie fa buon gioco al fatto che Procida è stata eletta Capitale italiana della cultura 2022, quindi probabilmente al boom di visite già indotto da questa nomina, ce ne sarà un altro legato alla serie Netflix.
Ci sono molti particolari suggestivi in Generazione 56K. L’ambientazione, la capacità della storia di rivolgersi a una determinata generazione (ma riuscire a piacere anche agli altri), e naturalmente il casting, soprattutto quello dei bambini – specialmente la versione infantile di Fru, che è un personaggio pieno di stupore e grazia, ma lo è anche e soprattutto nella sua versione da adulto. «Incontrarsi è il primo passo verso la delusione» dice il suo personaggio a Daniel. Fru, che poi nella serie è Lu, inetto e al tempo stesso vinto di fronte alle donne, perché non riesce a rapportarvici se non online.
Se proprio devo dire una cosa che non ho molto capito è che apparentemente i 5 protagonisti (Daniel, Sandro, Lu, Matilda e Ines) sono 35enni di successo. Vivono in case ben arredate, eppure non so se nella realtà sarebbe così semplice per loro. Però tempo fa avevo letto che le case delle sit com americane non potrebbero mai essere abitate dai loro protagonisti perché troppo costose soprattutto per il lavoro che fanno: tipo che la casa di Monica in Friends, per grandezza e posizione in un quartiere di New York con vista Central Park, potrebbe essere molto costosa, idem quella di Ted e Marshall in How I Met Your Mother, per non parlare di Sheldon e Leonard in The Big Bang Theory, anche se loro stanno a Pasadena che non è proprio il centro di Los Angeles. Magari si tratta di un riferimento ben calcolato. Perché chi segue The Jackal lo sa: tutto quello che fanno è fatto bene, con la testa. Ma c’è anche tanto cuore.