Guardare Shtisel è da un lato semplice e dall’altro non lo è: è aprirsi a un mondo nuovo, in yiddish.
Molti mesi fa vidi la miniserie Unorthodox, che raccontava di una donna di una comunità ebrea ultraortodossa a Williamsburg, che scappava per coronare il suo sogno di essere libera e di poter fare musica. Era una storia triste, piena di tensione. Per questo quando l’algoritmo di Netflix mi ha proposto Shtisel ho titubato un po’. Ma alla fine l’ho guardata tutta d’un fiato, perché è un po’ come una droga.
A differenza di Unorthodox, Shtisel è una commedia drammatica. È una contraddizione in termini? Forse: ma è nella storia degli ebrei questa commistione tra tragedia e senso dell’umorismo. Mi ha fatto pensare a lungo a quella storia yiddish contenuta nel prologo di A Serious Man, e che si conclude con la frase:
«Accetta con semplicità ciò che ti capita».
Shtisel, che dà il titolo alla serie, è il cognome di una famiglia al centro della storia, che vive a Gerusalemme, nel quartiere degli ebrei ultraortodossi. Il più anziano è il rabbino Shulem, che dirige una scuola ebraica e ha 4 figli, 2 maschi e 2 femmine, una delle quali si vede poco, dato che ha sposato un sefardita e il padre si riappacifica con lei solo nel momento in cui crede di morire. I figli sono lo studente Zvi Arye (attenzione, perché studente non significa ciò che significa per gli occidentali, è assimilabile a un ricercatore di cose sacre), c’è Giti, che viene tradita dal marito e osteggia le relazioni dei figli più grandi Ruchami e Yosa’le. E infine c’è forse il personaggio più bello, quello di Akiva, figlio minore di un padre impiccione, che invade il suo lavoro di artista e soprattutto la sua vita sentimentale. C’è anche una nonna, Malka, in una residenza per anziani, che è appassionata di Beautiful e tiene tutti con il fiato sospeso per una caduta che la porta al coma.
La moglie di Shulem, Dvora, è morta da quasi un anno quando la serie prende le mosse. Gli Shtisel stanno terminando il loro periodo di lutto e Akiva ha iniziato a incontrare delle donne per sposarsi, ma è innamorato di una due volte vedova, Elisheva. Dvora e i mariti di Elisheva irrompono sullo schermo nella narrazione: quello in Shtisel è un continuo dialogo con i morti, in cui è difficile dire cosa sia reale. Culturalmente parlando, molte cose che avvengono in Unorthodox qui non ci sono: la condizione femminile non è ingabbiante, soprattutto per il personaggio di Giti, che suona la fisarmonica ed è lei a decidere tutto in famiglia, a tenere le redini e i redditi (nonostante a volte il marito Lippe cerchi di andare contro il suo volere, spesso in buona fede ma non sempre).
Con Shtisel si ride e ci si commuove, ma è questo colloquio con la morte che mi ha colpito. I morti diventano parte di noi, li portiamo sempre accanto a noi nelle nostre storie quotidiane. Questo diventa sempre più palese nella terza e ultima stagione, che si apre con delle visioni di Akiva: l’uomo sogna la moglie-cugina Libbi, per la quale ha tanto combattuto, la immagina accanto a lui, tanto da dipingerla come fosse di fronte ai suoi occhi. L’elaborazione del lutto è qualcosa in cui sembrano difettare gli Shtisel, ma tuttavia è il sintomo di una maturità che si ha nelle ultime scene. Mentre le strade di Shulem e Akiva si stanno per separare, Ruchami (interpretata da Shira Haas, la protagonista di Unorthodox), che aveva una gravidanza a rischio, partorisce, poco dopo che il padre Lippe si inginocchi in un parcheggio rivestito dalla luce. Nell’ultimissima inquadratura, Ruchami abbraccia la sua bambina, attorniata da Lippe, Giti e dal marito Hanina. Ma poi guarda in camera e lo spettatore non può fare a meno di pensare che in realtà siano tutti morti, lei in testa, ma che resteranno nel cuore degli spettatori.
Ps: la sigla è davvero suggestiva, non saltatela.