The Factory, tra il 1962 e il 1968, ha contribuito all’esplosione della Pop Art, di cui Andy Warhol è rimasto il re indiscusso.
di Paolo Merenda
I barattoli di Campbell’s Soup, le serigrafie con il volto di Marilyn Monroe, la copertina di The Velvet Underground & Nico (quella con la banana gialla), sono solo piccole parti di quanto fatto da Andy Warhol, artista americano a dir poco poliedrico. Era il classico vulcano (come i diversi Vesuvio dipinti da lui) di idee, sempre pronto a lanciarsi nelle nuove avventure che il suo estro gli suggeriva. Quindi, la creazione della Factory, attiva nella sede originale tra il 1962 e il 1968, è stata una diretta conseguenza per allargare il bacino d’utenza degli artisti da cui poter attingere, e a cui poter passare, idee vincenti.
È bene ricordare che la carriera di Warhol ha “beneficiato”, come purtroppo in molti altri casi, della sua morte, avvenuta nel 1987 in seguito a un’operazione chirurgica, ma essendo nato nel 1928, era già attivo e prolifico all’epoca dell’apertura della Factory, al 231 East 47th Street, a Midtown Manhattan, quartiere facente parte del complesso di New York (all’interno del Midtown, per fare un esempio su tutti, vi è l’Empire State Building). Non deve stupire quindi che venne subito frequentato assiduamente da Lou Reed, Nico (ovvero Christa Päffgen), Mick Jagger, Bob Dylan, David Bowie, Salvator Dalì, Amanda Lear e molti altri.
Per Lou Reed e i Velvet Underground (e ovviamente anche Nico), come detto, realizzò forse la copertina più famosa di un album musicale della storia, la banana gialla su fondo bianco, ma non fu l’unica: per Mick Jagger e gli altrettanto iconici Rolling Stones, diede il contributo con la copertina di Sticky Fingers, con il controverso scatto in bianco e nero che tutti conoscono.
Particolare la collaborazione tra Dalì e Amanda Lear, sua musa, forse nata proprio tra le stanze della Factory, o Silver Factory perché ricoperta di stagnola e carta argentata su ogni parete, perfino nell’ascensore che portava al piano dei locali che rappresentavano il cuore pulsante di un “organismo” attivo come una fabbrica (factory in inglese, appunto) di montaggio.
Spesso si dice di come per fare buona arte bisogna respirarla ogni momento, e quello era il posto giusto: i controversi film spesso a sfondo sessuale girati da Andy Warhol (Blow Job, Eat, Sleep), la musica registrata in sede, la pittura e tutto quello che i presenti volessero fare, tra cui i frequenti atti sessuali e le orge, facevano parte di un essere artisti sempre, 24 ore su 24. Non è un caso che le migliori menti del periodo si siano ritrovati nella Silver Factory: basti pensare, oltre ai già citati, a Truman Capote, fine e tormentato scrittore, e Billy Name, fotografo ufficiale della Factory e tra i più famosi della storia.
Una curiosità riguarda lo storico divano rosso che faceva parte dell’arredo: quando nel 1968 effettuarono un trasloco, lo poggiarono per un brevissimo lasso di tempo sul marciapiede, ed è allora che venne rubato. Forse la vicenda è citata in How I Met Your Mother, dove c’è un marciapiede che ha quasi facoltà magiche nel far sparire le cose che vengono posate?
Altra curiosità, questa successiva alla Silver Factory originale di Andy Warhol, che pure continuò a esistere in diverse forme, in altri luoghi newyorchesi: nel 1981 l’uomo collaborò con l’italiana Loredana Bertè, per cui diresse il video di Movie, canzone contenuta nell’album Made in Italy (che la cantante registrò a New York). La Factory fu responsabile anche della copertina dell’album.
Come vedete, quando l’arte (e spesso, com’era più diffuso in quegli anni, la sregolatezza e gli eccessi) incontra un luogo in cui fiorire, non c’è limite ai traguardi che si possono raggiungere. Il che ci porta alla domanda fondamentale: esisterà mai una nuova Silver Factory? Potrebbe esserci, perché no, ma in un mondo che è cambiato e che vira sempre più velocemente verso il digitale e il virtuale, unire tante menti per un obiettivo comune forse è la parte più difficile. D’altronde, ogni cosa esiste nel solo posto in cui può esistere, ma con un po’ di fortuna, una sede in cui agglomerare tanta bellezza tornerà, anche se temo che ci sarà da aspettare.