Un racconto inedito, un po’ cattivo, in occasione della Pasqua.
«Come andiamo Cuncetta?»
«Nu sciamu boni beddha mea. Sta me fazzu vecchia. E la vecchiaia è brutta: perdita di udito, perdita di vista, perdita di conoscenza… Nu canuscu cchiui ciuveddhi».
Cuncetta stava affacciata ogni giorno alla finestra della sua strada. Guardava tutto, senza vedere
molto. Se le accennavano un saluto, lei rispondeva sollevando il braccio e strofinando le dita tra loro, mimando una sorta di infantile cenno sociale.
Perché Cuncetta, pur essendo un’ottuagenaria, aveva sempre avuto un che di infantile, forse per i suoi continui capricci. Vecchiaccia arcigna della middle class, un odio sociale atavico, si riteneva la madre migliore del mondo, Katharine Hepburn style. Non lo era. In compenso era una pessima cuoca, per giunta tirchia.
All’ora di pranzo, prendeva una bieta da 50 centesimi di euro, la tagliava a metà e la bolliva. Davanti al piatto diceva: «Osci mangiu cu 500 lire». Non si era ancora rassegnata al fatto che il mondo che conosceva non c’era più. O forse non c’era mai stato.
A Natale preparava pittole e cartellate. Dovevi stare attento a non farti cadere neppure una briciola a terra, o avrebbe bucato il pavimento, tanto era dura e pesante. Preparava tutto nelle settimane precedenti alla vigilia, e i suoi dolci cosparsi di miele si cristallizzavano come nella vetrina di un fornaio senza clienti. Preparava tutto con ampio anticipo perché poi non doveva sporcare. Così, la sera della vigilia, ai figli e ai nipoti venivano serviti dei panini da imbottire, con salumi e formaggi direttamente dagli incarti. Gli invitati la potevano guardare mentre smozzicava un panino al salame con un solo incisivo masticante la gingomma di mollica, che viene pressata tra le dita.
Un giorno, molti anni prima, la figlia nubile Maria Neve tornò a casa con un fidanzato.
«Mamma, guarda chi ti ho portato. Pippi!»
«Ah sì, tantu piacere».
Girò i tacchi e andò a stirarsi gli scamiciati di pannolenci.
Nel tempo Cuncetta aveva respinto tutti i pretendenti di Maria Neve. Non erano mai abbastanza giovani, abbastanza belli o abbastanza ricchi per quello che si aspettava. La questione la riguardava da vicino: chi avesse sposato Maria Neve avrebbe dovuto accogliere Cuncetta in casa, accudirla fino alla morte.
Fu così che Maria Neve restò nubile e per molto tempo rancorosa verso la madre che era tutt’altro che la genitrice del secolo. D’altra parte, quando Maria Neve era piccola ed era trista, cioè non voleva mangiare il brodo vegetale oppure tornava a casa sporca d’erba, Cuncetta la faceva stendere per terra e le saltava addosso. «Come una cavalletta» raccontava Maria Neve, intendendo in realtà una piccola cavalla, dato che Cuncetta era bassa solo un metro e trenta.
Accadde poi che l’anziana prese l’influenza.
Apriti cielo.
Dal suo letto di febbre e dolori muscolari, mandò a chiamare il curato, un quarantenne sovrappeso e rubicondo dall’aria sempre ebbra di vino.
«Cuncetta, che mi combini?»
«Don Pino, peppiacere. Salvami! Dimmi un’avemaria. Avemaria, non recumeterna».
Don Pino la guardava perplesso. Non aveva mai visto una persona anziana temere tanto la morte, desiderare così tanto la vita.
«Cuncetta, prego per te. Hai bisogno d’altro?»
«Sì, don Pino. Apri ddhai. Nel cassetto ‘nce sordi. Vi’ cu spariscene, ca se no ddhu fiju meu se li cioca tutti».
«Cuncetta, non posso prenderli. E cosa ne dovrei fare?»
«Tienili pe’ la Maria Neve. Pe’ la dota».
«Cuncetta, ma non si usa più. E poi è un’influenza, non stai per morire davvero».
«Sì don Pino. Tieni ragione. Nu pozzu murire, nu pozzu. Nun aggiu ‘ncora sistemata la Maria Neve».
Quell’anno la Pasqua arrivò puntuale come sempre, richiamata da qualche pioggia sparsa. Cuncetta aveva preparato gli struffoli il giorno del Mercoledì delle Ceneri. Ed erano anche quelle dure come pietra, come la sua pizza, come i suoi panzarotti di patata, le sue schiacciatine al burro con la carne macinata. Un vero attentato a denti e palato.
Ma lei non ci pensava: nella sua mente era una cuoca sopraffina.
Cuncetta addentò con l’unico incisivo rimasto uno dei suoi struffoli, ma le andò di traverso. Provò a mandare giù un sorso di Amaro del Capo, l’unico vizio che si concedeva da sempre. Ma niente. Maria Neve la guardò andarsene così: la durezza della sua espressione nella mollica di pane, quella dei dolci col miele seccato in superficie, per abbassare lo sguardo sul pavimento, sporco da chissà quanto. Ma forse quello non doveva essere pulito, privilegio destinato alle stoviglie stipate in serie, in armadi chiusi a doppia mandata.
Don Pino nell’orazione funebre disse: «Io l’ho vista la Cuncetta, pochi giorni prima di morire. Quello che le è accaduto è stato un incidente. Ma aveva rassegnato la sua anima a Dio».
Da qualche parte, l’anima di Cuncetta grida ancora vendetta. Urla ancora: «Nu pozzu murire!».
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