Un anno fa, il regista Giovanni Minerba mi rilasciò quest’intervista, che finalmente ho l’occasione di pubblicare.

Giovanni Minerba è una delle pietre miliari viventi per la cultura queer in Italia. Salentino d’origine, andò a vivere a Torino, dove fondò nel 1986 il festival del cinema a tematica Lgbtqai* Da Sodoma a Hollywood (oggi Lovers), insieme al regista Ottavio Mario Mai, con cui condivise, fino alla morte nel 1992, un sodalizio artistico e sentimentale.

Una delle sue opere più importanti e note è un film del 1991, girato sempre con Mai, che si intitola Il «fico» del Regime ed è un documentario sulla favolosa Giò Stajano, una delle intellettuali più illuminate e lungimiranti di quell’Italia che fu. Nella pellicola targata Minerba-Mai, si racconta tra l’altro come forse Federico Fellini si ispirò a Stajano per il bagno nella fontana di Anita Ekberg ne La dolce vita – Stajano però il bagno lo fece nella Barcaccia, non nella Fontana di Trevi. Alla fine del documentario, la meravigliosa Giò fa un altro bagno in fontana, quella della sua Sannicola, donata dal Regime Fascista al gerarca Achille Starace, di cui Stajano è discendente.

La foto che stiamo usando per quest’articolo è invece relativa a un piccolissimo ruolo interpretato in questi anni da Minerba, cioè Gli anni amari, biopic di Andrea Adriatico su Mario Mieli in questi giorni in distribuzione in Italia.

Perché Giovanni Minerba ama il cinema, respira il cinema. Ha portato in Italia dei film incredibili del cinema internazionale, come Poison di Todd Haynes e alcuni suoi corti – regista tra l’altro del superbo Velvet Goldmine con Christian Bale. Quest’intervista mi è stata rilasciata proprio fuori da un cinema, la piccola sala del CineLab “Giuseppe Bertolucci” al Cineporto di Lecce, poco prima di entrare a vedere Mark’s Diary di Giovanni Coda durante la programmazione del Salento Rainbow Film Fest.

Qual è stato il tuo primo contatto con il cinema? 

«La mia passione è nata dall’andare al cinema, fin da bambino. Solo dopo è arrivato Ottavio».

Quando è arrivato Ottavio?

«Nel 1977, e allora è iniziata anche la nostra militanza, all’interno del gruppo del Fuori. A un certo punto abbiamo cominciato a capire che il cinema può essere un filo conduttore per la conoscenza di alcuni temi e quindi con il Fuori abbiamo cominciato a fare delle piccole rassegne, già prima del nostro festival ovviamente. Poi, nel 1980-81, andando spesso al cinema, verificando, vedendo film che non ci piacevano, che non ci rappresentavano, abbiamo capito che alcuni film proponevano sempre i soliti stereotipi sui gay. Una volta andammo a vedere Le occasioni di Rosa di Salvatore Piscicelli. Lui aveva già fatto Immacolata e concetta, l’altra gelosia, molto bello, con una storia tragica interpretata da Ida Di Benedetto e Marcella Michelangeli. In Le occasioni di Rosa c’era un personaggio gay. Solito stereotipo: un vecchio, signore anziano, che andava in giro a cercare marchette. Partì l’ennesima incazzatura con Ottavio che disse basta e io gli suggerii di farseli da solo dei film che potessero essere veri, interessanti. L’indomani mattina siamo andati a comprare una telecamera, e lì è cominciato il nostro approccio con il cinema. Abbiamo raccontato la prima storia che era, diciamo, a grandi linee la storia della mia vita. Parlava di un uomo che doveva sposarsi e che cercava di capire cosa potesse essere la sua vita e che faceva coming out con la madre. Con i primi film iniziammo a girare i festival e cominciammo a capire che tanto cinema in Italia non arrivava e abbiamo iniziato a capire se a Torino potesse nascere un festival del cinema gay. In America c’erano già, perché in Europa non esistevano? Proviamo, ci siamo detti».

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Quindi il vostro è stato il primo festival in Europa a tematica Lgbtqai*.

«Sì. Poi, realizzammo un cortometraggio, Messaggio, per il festival del cinema europeo di Lecce (non quello di oggi, un suo antenato potremmo dire, ndr). Fu programmato insieme a un film a tematica gay di Rosa von Praunheim e, finita la proiezione, ricevemmo 8 minuti di applausi. Qualche mese dopo, quel corto vinse un premio indetto da Rete 4 e organizzato da Maurizio Costanzo con una giuria di eccellenza con Ida Di Benedetto, Giuliano Montaldo, Vittorio Caprioli… Ci fu una battaglia tra i tre giudici per chi doveva annunciare il premio. La vinse Ida Di Benedetto, e da lì siamo andati avanti».

Tra i tuoi film c’è un documentario su Giò Stajano. Perché sentivi l’urgenza di raccontare questa figura?

«Era il 1991, un anno e mezzo prima che Ottavio ci lasciasse e incontrammo Giò Stajano per la prima volta, in una trasmissione su Rai 3 con Gad Lerner. Ci venne l’idea e dopo due mesi girammo il documentario. Giò Stajano ha smosso un po’ le acque della Roma capitolina».

L’idea del bagno nella fontana di Aradeo è venuta a voi o a lei?

«Insieme. Parlando di quello che era stato il suo rapporto con Fellini. Stajano iniziò a girare La dolce vita e poi fu sostituita da Fellini, perché era troppo “normale”». 

Perché Fellini cercava la macchietta.

«Sì, la nostra è al tempo stesso una risposta e un omaggio a Fellini, rispetto alla breve partecipazione di Stajano a La dolce vita. Anche perché Fellini si è ispirato a lei per la scena della fontana. È stato il nostro modo di rispondere a Fellini con Giò che dice: anch’io avrei potuto fare Anita. La sua ironia c’è tutta».

Quando avete cominciato con il festival del cinema, ci sono state delle resistenze che avete incontrato di tipo culturale?

«Hai voglia. In primis da parte dell’assessore di allora, che aveva comunque votato la delibera per un piccolo contributo che il comune di Torino ci aveva dato. Ci fu un casino. Tutti i giornali ovviamente parlavano di questa polemica».

Anche perché all’epoca erano tutti democristiani, fondamentalmente.

«L’assessore era democristiano. La giunta però che ci aveva fatto passare il festival era per la prima volta di centrosinistra, che era arrivata dopo le varie giunte di sinistra».

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