Il 1 giugno 1967 usciva Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, un disco fondamentale non solo per i Beatles, ma per l’intera storia della musica.

Ricordo ancora la prima volta che ho ascoltato She’s Living Home. Era su una cassetta. Su un lato c’era Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, sull’altro l’omonimo dei Velvet Underground del 1969, due dei miei dischi preferiti di tutti i tempi. All’epoca non sapevo di cosa parlasse, l’avrei scoperto molti anni dopo: sapevo solo che mi metteva una grande tristezza.

Molte delle cose che so di Sgt. Pepper’s le ho lette in un libro che amo particolarmente. Parlo di Sgt. Pepper – La vera storia di Riccardo Bertoncelli e Franco Zanetti. Che prende le mosse da un fatto interessante: è con questo disco dei Beatles che si è iniziato a parlare di rock senza il roll. L’album rappresenta un fenomeno interessante sotto diversi punti di vista. A cominciare dalla composizione.

Benché per contratto la firma fosse Lennon-McCartney, per la verità gran parte di Sgt. Pepper’s è stata realizzata da Paul McCartney – con delle incursioni poche ma significative di John Lennon, che spesso hanno avuto un carattere di occasionalità. Un volantino, un articolo di giornale, un fenomeno giovanile: tra le righe dei versi di queste canzoni c’è un mondo nascosto e affascinante che vale la pena di esplorare.

Naturalmente parte del libro parla anche e soprattutto della fantastica copertina del disco, dai tratti quasi leggendari. Di chi fu l’idea e come nacque? Chi decise quali furono i personaggi da inserire e perché furono inseriti proprio quelli? Perché nel fronte di copertina McCartney non è lui ma una sagoma di cartone?

Quest’ultimo interrogativo assume i contorni del mito. È proprio con Sgt. Pepper’s che si diffuse a macchia d’olio in tutto il mondo la teoria del complotto sulla morte di Paul McCartney – che naturalmente è vivo e sta bene. Certo, prima c’era stata la cosiddetta Butcher’s Cover – quella della raccolta americana intitolata Yesterday and Today – ma i complottisti con Sgt. Pepper’s si sono davvero dati da fare in quanto a indizi sulla copertina e nelle canzoni. Tanto più che fu il primo disco successivo alla decisione dei Beatles di non esibirsi mai più in pubblico.

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Un altro aspetto interessante di questo libro riguarda i dissidi tra Lennon e McCartney, che secondo alcuni fan sono accesi ancora oggi, a molti anni dall’omicidio di Lennon. Mi piace il modo in cui viene affrontata la questione e come venga gettata acqua sul fuoco per i fan che non smettono di incolpare Yoko Ono. E su, nel 2020, forse possiamo goderci How Do You Sleep? come una bella canzone e nient’altro di più. (Però, ecco, il libro è del 2007, ma non cambia granché la sostanza).

Quanto a me, Sgt. Pepper’s rappresenta uno dei migliori dischi che abbia mai ascoltato, per quello che può valere il mio giudizio. È come stare sulle montagne russe – sì, ok, Helter Skelter non è uno dei brani contenuti ma fa lo stesso. È un disco che sale, entusiasmante all’inizio, quasi danzereccio, poi assume una connotazione più spirituale con Lucy in the Sky With Diamonds (interessante nel libro anche la posizione sull’acronimo Lsd e sulla spiegazione che ne diede Lennon all’epoca), quindi dopo il plateau si ridiscende e si ritrova la calma con She’s Leaving Home. E ancora si arriva fino alle atmosfere di un circo itinerante, si viaggia in India con George Harrison, si va sul fondo del mare a incontrare un vecchietto e così via. Finché dopo la ripresa c’è un pezzo finale che mi capita di canticchiare spesso la mattina. Perché A Day in the Life non è solo un giorno nella vita: è ogni giorno nella vita, è ogni giorno in cui la musica ci rende migliore la vita.

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