Abbiamo visto l’ultima stagione di Tredici: ecco come finisce. (Se non avete finito di vedere la quarta stagione non proseguite perché l’articolo è pieno zeppo di spoiler).

La quarta e ultima stagione di Tredici si apre con un nuovo funerale. Ma lo spettatore non sa di chi si tratta fino a che non ha visto la decima puntata, l’ultima in assoluto. Perché, eccezionalmente, questa stagione è composta da soli dieci episodi che raccontano gli ultimi mesi di liceo di Clay Jensen e compagni. Un’altra novità è rappresentata dalla sigla: se le stagioni precedenti sono state caratterizzate da una serie di dettagli che si aggiungevano via via e poi le cassette, le Polaroid e gli indizi dell’inchiesta sulla morte di Bryce Walker, stavolta gli autori hanno optato per una brevissima sigla con fondo nero e logo del titolo, niente di più.

Il trailer suggeriva delle circostanze abbastanza specifiche, come il crollo di Clay. Pur non essendo un’amante di Tredici, credo che stavolta gli sceneggiatori siano riusciti a spiegare appieno cosa significhi un attacco di panico, mostrandone più di uno. Nel corso delle dieci puntate Clay è spesso alle prese con l’ansia, ansia cui contribuiscono fattori esterni e interni, fino a portarlo a una dissociazione: il protagonista compie dei gesti ma non ricorda di averli compiuti.

Possiamo essere d’accordo sul fatto che Tredici tratti il complicato periodo dell’adolescenza, ma non sono certa che tutte queste circostanze possano essere compresenti all’interno della singola esperienza adolescenziale. Mi spiego meglio: a Clay e ai suoi amici capitano varie esperienze negative che vanno dal suicidio alla morte per negligenza stradale, la violenza sessuale, l’uso di droghe pesanti e di ormoni senza prescrizione, scatti d’ira tanto violenti da diventare un problema con la giustizia, omicidi e così via. Sicuramente la vita degli adolescenti oggi è sempre più difficile, ma a volte Tredici è così iperbolico da apparire come una versione moderna de La casa nella prateria, ma con più disgrazie.

Certo, il tema della malattia psichiatrica stavolta l’ho apprezzato e credo che non ne se parli mai abbastanza: Tredici l’ha fatto senza retorica e liberando la questione dallo stigma sociale da cui è ancora accompagnata. Altri temi sono giusto accarezzati: la violenza razzista della polizia (trattata da sempre al cinema e in tv, come abbiamo spiegato in un altro articolo, e in tempi non sospetti), il momento in cui una manifestazione pacifica si trasforma un qualcos’altro, la sensibilizzazione su un tema importante come l’Aids.

Annunci

Perché è proprio Justin Foley che muore, a sorpresa, a causa delle complicazioni dell’Aids. Avete letto bene, Aids. Nel 2020 sembra un problema lontanissimo, ma forse non è male ricordare che atteggiamenti a rischio e rifiutarsi di fare il test per l’Hiv possono portare nel tempo all’Aids, se si ignora e si trascura l’eventuale contagio. Se un problema di salute si ignora non significa che non ci sia. Justin muore in un modo assurdo, doloroso, incomprensibile. Ma la sua morte segna anche il momento in cui Clay comincia a riprendersi davvero la sua vita, con Tony Padilla e con gli altri. Fino al giorno del diploma, in cui tutti insieme, vecchi e nuovi personaggi, decidono di seppellire le cassette di Hannah Baker per sempre, e voltare pagina. Cosa che Clay con Tony fa appunto nell’ultima scena, avviandosi all’università.

La prima stagione di Tredici mi era piaciuta, però da quel punto in poi – con l’eccezione della tematica psichiatrica di cui sopra – spesso la serie mi è parsa una banalizzazione di una serie di temi. Stavolta (anche se per la verità è una colpa reiterata), la banalizzazione è caduta su omo e bisessualità, oltre che coming out. Ci sono dei momenti che sembra quasi che Tredici debba ospitare necessariamente una quota di personaggi Lgbt, che nell’ultima stagione è numericamente considerevole. Mi sembra un modo per banalizzare la questione, così come per il coming out di Alex Stendall e Charlie St George, in cui la tensione drammatica è praticamente azzerata. Della serie «gay è bello, ma solo se stai con un quaterback».

A proposito del coming out di Charlie, c’è stata una bellissima sorpresa. Tra i nuovi personaggi con interpreti di alto profilo di questa stagione di Tredici, c’è il dottor Ellman, psicologo di Clay, che è interpretato da Gary Sinise. Per un attimo ho creduto che la madre di Winston Williams fosse interpretata da Marcia Cross, ma è impossibile dire chi ne sia l’interprete, dato che è una figura sfocata sullo sfondo. E poi c’è il padre di Charlie – quest’ultimo diventato insieme a Tony il mio personaggio preferito della serie – che è interpretato da Andrew McCarthy, di cui sono big fan. McCarthy è stato uno degli attori del Brat Pack negli anni ’80, fino a essere interprete dello stracult Weekend con il morto. Negli ultimi anni aveva già fatto un’incursione da “padre” in Gossip Girl (era, in una backstory, il nonno di Serena van der Woodsen), che aveva anche diretto. Naturalmente in molti apprezzano il suo lavoro in Orange Is the New Black, in cui ha diretto degli episodi non proprio semplicissimi, non disdegnando di infilarci degli easter egg per noi che apprezziamo i suoi molti talenti.

Ma torniamo a come finisce Tredici. Sostanzialmente finisce con ognuno dei protagonisti che prosegue il suo percorso di vita verso il college. È un po’ bizzarro, perché questo percorso viene raccontato lentamente ma al tempo stesso mi sembra abbastanza affrettato. Certo, non mi ha lasciata indifferente questo finale, anche se sicuramente non annovererei Tredici tra le mie serie preferite. Però continuo a chiedermi: non era meglio fermarsi alla prima stagione? Il riscontro del pubblico può sacrificare la creatività in favore di un sacco di carne sul fuoco? Quest’ultimo paragrafo non vi sta dimostrando cosa significhi in effetti allungare il brodo?

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: