È forse il miglior film di Paolo Virzì: Il capitale umano parla di una vicenda universale, che nel film ha un’ambientazione, ma potrebbe accadere dovunque.

Dino, Carla, Serena. Alias Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi e Matilde Gioli. Sono loro i protagonisti de Il capitale umano, dramma apparentemente corale che però racconta la storia dai loro punti di vista: tre tasselli che si intersecano come in un puzzle, incalzati da domande. Che cosa conta davvero? Quale valore ha la vita umana, ogni vita umana? Il denaro può comprare tutto? La cultura è solo un gioco?

Paolo Virzì ha compiuto con Il capitale umano un’azione per lui in quel momento inedita: ha preso un romanzo ambientato negli Stati Uniti e l’ha portato in Brianza, calandolo in una realtà tutta italiana e mostrandoci come tutto il mondo è paese, qui un tempo erano tutti campi, non ci sono più le mezze stagioni. Scherzi (e luoghi comuni) a parte, Il capitale umano sembra un storia concepita in Italia, ma non lo è: da qui il suo carattere di universalità, a partire dall’avvenimento che scioglie la trama, cioè un incidente stradale.

Gli incidenti stradali, purtroppo, capitano. Ed è sempre colpa di qualcuno o di qualcosa. Nell’incidente al centro del film c’è tutta una serie di avvenimenti concatenati che prende le mosse nei mesi precedenti. Se l’incidente avviene in una notte ghiacciata, è nel sole dell’estate che dobbiamo rintracciare i suoi prodromi. I tre protagonisti mostrano come siano giunti a quella fatale notte, a come le loro vite si siano dipanate fino a quel momento e a come cercano di venire fuori dalle proprie scelte. Perché in ogni scelta di questi tre protagonisti c’è almeno un errore: l’ambizione, la codardia, l’eccessiva fiducia, la bassa autostima. Ma anche se noi «siamo la somma totale delle nostre scelte» come si dice in Crimini e misfatti di Woody Allen, resta un valore intrinseco in ognuno di noi: ossia il capitale umano, così come viene spiegato da una scritta alla fine del film.

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Come spesso accade nei film di Virzì, ci vengono mostrati tre mondi: i ricchi, i poveri e tutto ciò che c’è nel mezzo. Solo che stavolta non c’è la Toscana, Livorno, a fare da scenario, non c’è nessuno dei suoi attori feticcio, ma c’è un cast comunque favoloso, oltre ai già citati Gioli, Bentivoglio e Bruni Tedeschi: Fabrizio Gifuni e Luigi Lo Cascio (che nei giorni scorsi ho scoperto essere stati compagni di corso in accademia), Bebo Storti e Gigio Alberti. E la più internazionale delle nostre attrici italiane, la fantastica Valeria Golino, che io andrei a vederla al cinema anche quando recita l’alfabeto.

Trovo che sia stato un grosso errore escluderlo anche solo dalla cinquina dei Premi Oscar del 2014. Il capitale umano ci propone un universo di umanità: c’è il cinico, l’affarista, c’è l’ambizioso ma anche chi ha bisogno di una spinta, c’è chi non si rassegna al cambiamento, soprattutto quello delle donne della sua vita, e chi subisce il peso della società sulle sue spalle. I momenti sono scanditi da musica strumentale, lenta, dolce, calma. Perché tutto appare immutabile in questa Brianza immaginaria che non esiste in nessun dove se non sullo schermo. E forse lo è, perché nessuno vi si ribella.

Ed è forse in questo che Il capitale umano si assomiglia al resto della produzione di Virzì: questo film, come gli altri, è un invito alla ribellione, a cambiare le cose che non funzionano per sé e per gli altri. Perché forse la felicità esiste, al netto delle brutture della società, esiste nei piccoli gesti e nella speranza. Oh, comunque il film è su Netflix.

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