Ci sono arrivata per caso a The Boys in the Band, poi mi sono accorta di aver visto il film originale.
Dopo aver terminato la visione di Ratched, l’algoritmo di Netflix mi ha proposto un nuovo film in catalogo, The Boys in the Band. Il titolo non mi diceva granché, così ho visto il trailer, scoprendo che uno dei protagonisti era il mio adorato Jim Parsons, mentre gli altri, be’… diciamo che ho pensato lì per lì: qui c’è lo zampino di Ryan Murphy, che è in effetti uno dei produttori della pellicola. Gli attori cui mi riferisco sono Zachary Quinto, Matt Bomer e Charlie Carver, ma nel cast è presente anche Andrew Rannels tra i più celebri.
Come avrete capito The Boys in the Band è un film corale. Racconta di un gruppo di amici omosessuali (più un “regalo”, ossia un prostituto molto gradito al festeggiato) che si riuniscono in occasione del compleanno di uno di loro, Harold, che in effetti è l’ultimo ad arrivare a casa dell’ospite Michael. Ognuno di loro ha la sua storia, ognuno i suoi rimpianti o i suoi desideri. Qualcuno è più lucido, altri sono più disillusi, qualcun altro è più cinico. Il clima di festa cambia nel momento in cui un elemento estraneo è presente alla riunione, un vecchio compagno di università dell’ospite, un uomo tradizionalista e omofobo che l’ospite non esita a mettere di fronte alle sue contraddizioni. Ma nella sua corsa contro l’omofobia nella società, Michael rivolge ai suoi amici le proprie insicurezze e li mette di fronte ai loro «what if», attraverso un gioco telefonico.
È a questo punto che mi sono resa conto di conoscere la storia, come avessi già visto il film. Perché in verità The Boys in the Band è un remake di una pellicola del 1970 (Festa per il compleanno del caro amico Harold), a sua volta tratta da una piece di Broadway scritta da Mart Crowley, che in effetti ha partecipato alla lavorazione del film, come risulta dallo special Netflix che va in onda immediatamente dopo il film, poco prima di morire a marzo 2020.
Non stupisce che The Boys in the Band sia stato in origine un’opera teatrale. L’impianto è assolutamente teatrale, a partire dalla scenografia dell’incredibile casa di Michael, quasi trasparente nel suo assetto: lo spettatore è portato al suo interno come fosse nella platea di una sala, non al di là dello schermo di un computer. I dialoghi poi sono favolosi. Mi è capitato più volte di pensare: quanto mi piacerebbe saper scrivere in questo modo. E nonostante sia un film che lascia l’amaro in bocca, The Boys in the Band è particolarmente significativo, non solo perché la piece da cui è tratto è stata una delle prime a parlare apertamente di omosessualità alla vigilia degli Stonewall Riots. I protagonisti della storia rappresentano un grande universo, non un microcosmo: The Boys in the Band parla dell’amore che un essere umano può provare e di come la società cerchi di schiacciarlo. Naturalmente il processo è inasprito perché i protagonisti della storia sono gay, ma immagino che più di una persona, più di uno spettatore, di qualunque orientamento sessuale, possa identificarsi con loro, con le loro personalità.