Lazzaro felice di Alice Rohrwacher è un piccolo capolavoro contemporaneo che ha il sapore di un grande classico.
Non si può non restare incantati fin dalla prima scena di Lazzaro felice, pellicola di Alice Rohrwacher attualmente disponibile nel catalogo Netflix. Lo spettatore è lì, di fronte a una scena di vita agreste e non capisce: quando è ambientato questo film? Nell’800? Tra le due Guerre Mondiali? Sullo schermo ci sono delle persone che sembrano essere legate da rapporti famigliari e di vicinato, che vivono in un luogo remoto della campagna ciociara. L’Inviolata c’è scritto all’inizio di questo bizzarro luogo, con dei caratteri che ricordano l’architettura brutalista.
È un luogo senza tempo l’Inviolata. Perché non siamo affatto negli anni ’30. Siamo a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90. Eppure all’Inviolata, ci sono delle persone che vivono sotto mezzadria, senza sapere che è stata abolita e che oggi ci sono i sindacati. Questo gruppo di persone viene tenuto all’oscuro, grazie a una serie di timori che vengono ventilati loro, uno su tutti: se usciranno dall’Inviolata annegheranno nel rivo che la separa dal mondo reale, quello che è andato avanti.
La prima parte di Lazzaro felice è un’incredibile storia di sfruttamento: da un lato ci sono i contadini cui viene fatto credere di essere in debito con la padrona (Nicoletta Braschi) e dall’altro la padrona che si comporta come una divinità nei loro confronti, aiutata da un violento e rapace galoppino (Natalino Balasso). Ma l’arrivo del figlio della padrona spariglia le carte: il giovane, che fa amicizia con Lazzaro (interpretato dall’esordiente Adriano Tardiolo), un ragazzo semplice dall’aria sognante, finge il proprio rapimento, attirando a sorpresa l’attenzione delle forze dell’ordine sull’Inviolata. Una volta lì i carabinieri spiegano ai contadini che la mezzadria è finita, che sono liberi. Lo spiegano a tutti, tranne a Lazzaro che ha un incidente dopo una brutta febbre.
Passano gli anni e un giorno d’inverno Lazzaro si risveglia e incontra i suoi vecchi compagni di sventura. Anche il figlio della padrona, che è rimasto un approfittatore. Per Lazzaro non sembra essere trascorso un giorno, mentre lo stesso non si può dire degli altri, perfino Antonia (interpretata dalla sorella della regista Alba Rohrwacher) che l’ha sempre amato: Lazzaro è come rimasto cristallizzato nell’esperienza dell’adolescenza semplice. Come in passato, non ha filtri per comprendere la realtà, e va incontro al proprio martirio.
Lazzaro felice è un film straordinario, dal ritmo lento che però ti tiene incollata allo schermo. Ti tiene incollata per varie ragioni. La prima è che è un film misterioso e fin dall’inizio si ha la curiosità sul dove andrà a parare. La seconda è che è modellato su una maniera classica di fare cinema, la stessa maniera che ha reso grande il cinema italiano nel passato. La terza è nella bellezza degli occhi puri e buoni di Lazzaro, nella voglia dello spettatore di cullarlo finché non si addormenta.
Perché Lazzaro felice parla di un tema fondamentale nella nostra contemporaneità. Parla di un’umanità che non è capace di riconoscere più la bellezza, la bontà e la sacralità di un’immagine quando la scorge. È un po’ come in Teorema di Pier Paolo Pasolini con la trasfigurazione dell’Emilia mangiatrice di ortiche. Ma mentre in Pasolini «gli ebrei presero la via del deserto», per Rohrwacher i puri di cuore sono santi ma non beati. Martiri e forse anche vergini.
Un interrogativo resta, alla fine del film: siamo destinati a uccidere la bellezza e la bontà? Forse no, ma solo perché quest’omicidio terribile e cruento è già accaduto, e se riaccadrà, se continua ad accadere, è solo frutto di un eterno ritorno.