Il 7 febbraio 1980 usciva in Italia Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, una pellicola cruda, significativa e rivoluzionaria.
Il rapporto tra l’uomo e la natura (che comprende anche il rapporto tra esseri umani) è stato spesso scandagliato dal cinema. Basti pensare a Il cacciatore di Michael Cimino che, attraverso la metafora della lotta tra uomo e animale, ci ha fornito una lezione differente e contemporanea su homo homini lupus.
L’uomo è un lupo per l’altro uomo. Lo diceva Thomas Hobbes ed è vero, ieri come oggi. Ma a volte abbiamo bisogno di qualcosa di grande impatto per ricordarcelo. Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato è questo: una pellicola di grande impatto che reinterpreta in maniera grottesca e terrorizzante il mito del buon selvaggio.
La storia (in breve) parla di quattro documentaristi che, da New York, partono alla volta dell’Amazzonia e scompaiono. Tempo dopo, uno studioso, alla ricerca dei suoi connazionali, trova il girato dei documentaristi, scoprendo una realtà agghiacciante: non solo si scopre che queste persone giravano dei documentari che definire non proprio veritieri sarebbe un eufemismo, ma soprattutto che avevano ucciso e devastato i villaggi delle popolazioni primitive con le quali venivano a contatto, tacciandole di cannibalismo. Quando al suo ritorno lo studioso, incalzato da un network, visiona l’intero materiale ritrovato, scopre che non è possibile trasmetterlo in televisione: la storia contiene aberrazioni tali da rendere difficile la visione anche al Megadirettore Universale (sì, uno dei dirigenti televisivi è interpretato da Paolo Paoloni). Così allo studioso non resta che incamminarsi per le vie di New York abbandonandosi alla perplessità filosofica su chi siano i veri cannibali.
Cannibal Holocaust si basa su una struttura narrativa che ha fatto scuola nel cinema. Mai sentito parlare, per esempio, di The Blair Witch Project? In pratica, questa grossa operazione di marketing affonda le sue radici nella struttura narrativa scelta da Ruggero Deodato per il suo film. Struttura narrativa che si chiama «found footage» e che consiste nell’escamotage del ritrovamento, casuale oppure no, di alcuni video registrati, che possono fornire la verità su una scomparsa. Non è proprio un’invenzione di Deodato, ma fa il suo effetto: il ragionamento su cui si basa è simile a una struttura letteraria, quella del ritrovamento della testimonianza, della fonte, su cui è basato, per dirne uno, il romanzo storico I promessi sposi di Alessandro Manzoni.
Cannibal Holocaust è stato oggetto di un remake-omaggio da parte di Eli Roth, The Green Inferno. Che però non sono proprio riuscita a vedere. Sebbene Roth mi sia molto simpatico per le sue partecipazioni alle pellicole di Quentin Tarantino, da sempre non sono capace di digerire la violenza dei suoi film. E, vi chiederete, con Cannibal Holocaust ci riesci invece?
Be’, Cannibal Holocaust l’avevo già visto, per scriverne ho fatto solo un rewatch. E aggiungo che l’avevo visto da bambina e quindi mi ha lasciato una sorta di imprinting. Paragonare Cannibal Holocaust a qualunque film horror contemporaneo è un’eresia: mentre in molte pellicole di oggi la violenza è gratuita, senza senso, ma al tempo stesso il cattivo trova la sua giustificazione nel male della realtà, qui è tutto abbastanza funzionale a una narrazione che può essere sì difficile da digerire, ma alla fine del film non ti resta solo una sequela di scene splatter. Ti resta un capolavoro, in assoluto, non solo il capolavoro di Deodato.