Quando si guarda La casa dalle finestre che ridono non si può fare a meno di pensare a Twin Peaks.
Nel 1976 Pupi Avati diresse La casa dalle finestre che ridono, co-sceneggiato con il fratello Antonio, il suo attore feticcio Gianni Cavina e Maurizio Costanzo. Sfido qualunque fan di David Lynch però a non trovare una certa piccola somiglianza con Twin Peaks.
La casa dalle finestre che ridono è un bizzarro thriller sull’omertà che aleggia su un paesino della Bassa Ferrarese. La storia prende le mosse da un restauratore che, su indicazione di un amico alle autorità cittadine, viene chiamato a restaurare un dipinto spaventoso. Sulle prime sembra che sia un soggetto simile al martirio di San Sebastiano, ma al posto delle frecce ci sono dei coltelli. Mano a mano che il lavoro prosegue, il restauratore svela delle parti del dipinto che nessuno conosceva. La curiosità è tantissima e lui vuole cercare di scoprire qualcosa in più del suo autore, che è morto e sembra quasi essere avvolto da una damnatio memoriae. Ma il suo amico, che è spinto dalla sua stessa curiosità, gli dice di aver scoperto qualcosa di importante: una casa con le finestre che ridono. Ma prima che il restauratore possa esserci portato, il suo amico muore cadendo dal balcone. Non proseguo perché è davvero un film grandioso e non vi voglio raccontare altro della trama.
Il principale punto di contatto con Twin Peaks, oltre una certa atmosfera generale che spiegherò dopo, è un personaggio: il sindaco Solmi, che accoglie il restauratore fin dalla prima scena. Solmi è un nano ed è affetto da un’evidente zoppia, indossa un completo elegante a tinta unita e ha un volto enigmatico. Difficile non cogliere la somiglianza con il Nano/il Braccio/The Man from Another Place di Twin Peaks. La mia ipotesi si basa sul fatto che spesso Lynch trova ispirazione in opere di altri e il cinema italiano ha un posto speciale nel suo cuore: probabilmente questo dettaglio del nano è rimasto nelle «acque profonde» della mente di Lynch, per usare un’espressione contenuta nella sua autobiografia, per poi riaffiorare dopo una meditazione.
C’è poi la questione dell’atmosfera: molto accomuna il paesino della Bassa Ferrarese a Twin Peaks, dalla presenza dell’acqua alla conoscenza reciproca dei suoi abitanti, fino a un legame con l’arte figurativa e le religioni, nonché a molti elementi rossi. L’auto del sindaco, la moto con sidecar del suo autista, le bocche che sorridono su una casa misteriosa. E il sangue, tanto sangue, perché in un thriller che si rispetti ci deve essere.
Uno dei maggiori pregi de La casa dalle finestre che ridono consiste nel fatto che Avati ha creato una lunga suspence. Tenete presente che la casa che dà il nome al film inizia a vedersi quasi alla fine, anche se viene nominata ben prima. Il ritmo della pellicola è un crescendo e il film non è privo di interrogativi. Fino alla fine lo spettatore non ha assolutamente la più pallida idea di quale sia la soluzione del giallo che gli è stato sventolato in faccia fin dal primo momento.
Tra gli attori non figura nessuno di particolarmente notevole, con l’eccezione di Francesca Marciano, che tutti i cinefili conoscono come pregevole sceneggiatrice.