Porcile è una pellicola del 1969 diretta da Pier Paolo Pasolini, un film di difficile interpretazione, in cui segreti e morte la fanno da padroni.
Quando si guarda Porcile di Pier Paolo Pasolini si resta incantati da molte cose. Dalle scenografie innanzi tutto, create dall’uomo o naturali, che vengono incorniciate da una fotografia che esalta i luoghi e tiene sveglia l’attenzione dello spettatore. Dai dialoghi, ricchi di un lessico forbito, di giochi di parole, di intercalari, di tratti soprasegmentali rimarchevoli che nel doppiaggio non mancano – sia quando uno degli interpreti doppia se stesso, sia quando viene doppiato da un altro. Per giungere quindi agli interrogativi che lo spettatore finisce per sollevare dentro di sé e che talvolta non trovano risposta. Perché non è facile comprendere appieno la trama di Porcile, per via delle molteplici chiavi di lettura.
Porcile propone due trame intrecciate, una ambientata negli anni ’60 e una del XVI secolo. Negli anni ’60, a Berlino, una famiglia guidata da un ex nazista prova a investire nella produzione industriale. Solo il figlio Julian, il quale viene corteggiato da una giovane, Ida, senza successo, sembra indifferente a tutto. Tranne quando Julian a un certo punto diventa catatonico, per poi “risvegliarsi” dal suo languore nel momento in cui il padre scopre cosa Julian fa nel porcile, dopo il ricatto di un aspirante socio in affari. Alla fine Julian, che è dedito alla zoofilia con i maiali, muore nel porcile, divorato da quegli stessi animali che “amava”, mentre il socio di suo padre invoca il silenzio, sollevando il dubbio su chi sia il vero malvagio. Intanto, nel XVI secolo, si consuma invece la storia di un uomo senza nome, forse un soldato disertore di una compagnia di ventura, che decide di darsi al cannibalismo, seguito successivamente da un altro uomo, e poi da donne che vengono da questi catturati. Finché gli abitanti del vicino villaggio non li scoprono e li condannano a una lenta e dolorosa morte. Le ultime parole del primo cannibale sono le sole che vengono pronunciate chiaramente in questa storyline e ripetute come un mantra (c’è anche la lettura della condanna, ma non si capisce quasi nulla delle parole che vengono pronunciate):
Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana e tremo di gioia.
Il cast è fantastico: tra gli interpreti figurano Alberto Lionello, Ugo Tognazzi, Sergio Citti (che ha collaborato anche alla sceneggiatura e alla regia). Naturalmente c’è l’immancabile Ninetto Davoli, tra l’altro con un doppio ruolo significativo in entrambe le storyline, ad attestare quanto esse siano tra loro legate. E c’è anche l’inconfondibile Anne Wiazemsky, con il suo labbro buffo e dolce, proprio lei che l’anno prima aveva, sempre per Pasolini, interpretato Odetta in Teorema.
Come Teorema, in effetti, anche Porcile è una storia di famiglia. Il trait d’union sono i figli che disobbediscono ai padri, come recitano anche delle lapidi che vengono mostrate in talune scene. La prole disobbediente va incontro a una nemesi, a un karma negativo: è nella disobbedienza che si trova il loro destino infausto, ma non solo. I tratti della disobbedienza non incarnano soltanto il gesto in sé nei confronti dei padri, ma il fatto stesso di contrastare le regole della società, compiendo atti esecrabili come essere dediti a una parafilia o abbandonarsi all’antropofagia. Ben diversi erano gli esiti di Teorema, in cui la sessualità era il fulcro della vicenda umana che si dipanava: in Porcile Pasolini non ci mostra la vergogna che scaturisce dalle strutture sociali, ma cosa sia e quanto sia distruttivo il vero vizio, portando tutto a un parossismo di livello superiore.
Porcile è, inoltre, paradossalmente pieno di poesia. C’è poesia nei dialoghi, come detto poc’anzi, ma anche e soprattutto nell’estetica della fotografia. C’è poesia in quella lacrima che solca il volto di Ninetto Davoli nell’episodio di Julian, nel rivelare cosa sia accaduto al giovane e come i fattori l’abbiano scoperto e siano giunti, arrabbiati e affranti, a comunicarlo al padre, interrotti da un dito di fronte alle labbra: non solo la “buona società” deve tacere il vizio, ma anche e soprattutto deve tacere le conseguenze che ne scaturiscono.