Il personaggio maggiormente iconico della produzione di Italo Svevo, Zeno Cosini, nella finta autobiografia La coscienza di Zeno riesamina tutta la sua vita.
di Paolo Merenda
La grandezza di alcuni autori è spesso accompagnata da una fragilità molto spiccata. Ne è un esempio Italo Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz, che mette nel protagonista de La coscienza di Zeno il suo stesso essere.
Per comprenderlo appieno facciamo un passo indietro e vediamo come e perché Svevo è arrivato alla pubblicazione di questo libro. Nato nel 1861, scrive i primi racconti intorno al 1880 e nel 1892 dà alle stampe Una vita, il cui titolo iniziale era, emblematicamente, Un inetto. Il romanzo non ha molto successo e Italo Svevo ci riprova nel 1898 con Senilità, che nel titolo indica l’incapacità di agire degli anziani, ma assegnata al protagonista che invece anziano non lo è affatto. Nemmeno la seconda volta è quella giusta e l’autore triestino decide di tornare al lavoro consigliatogli dalla famiglia, il commerciante per il celebre colorificio Veneziani, posseduto dal suocero. Solo alla fine della prima guerra mondiale, nel 1919, si rimette alla macchina da scrivere e comincia La coscienza di Zeno, nato come un modo per psicanalizzarsi e superare i fallimenti precedenti. Lo pubblica nel 1923 e gli arrivano due inaspettati assist, due lettori d’eccezione che apprezzano La coscienza di Zeno e contribuiscono al successo (e che raccoglieranno dalle ceneri anche i primi due lavori): Eugenio Montale e James Joyce.
Non deve stupire quindi che la parabola dell’inetto trovi in questa storia l’apice, con Zeno Cosini che, con l’escamotage delle note sulla sua vita scritte per il dottor S, uno psicanalista da cui Zeno è in cura, il quale decide di pubblicarle senza avvertirne l’autore (nella finzione letteraria), dà il perfetto stile a metà tra narrativa pura e trattato psicoanalitico.
I vari capitoli sono Il fumo, La morte di mio padre, La storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante, Storia di un’associazione commerciale, oltre ad alcune pagine iniziali e finali scritte come note di Zeno stesso. Ogni volta l’uomo prova a superare i suoi limiti, senza tuttavia riuscirci. Non riesce a smettere di fumare, ma dà un’importanza quasi metafisica all’ultima sigaretta alla base di ogni tentativo, oppure nell’approcciarsi al cercare moglie ne trova una con la sua stessa scarsa autostima (è la terza scelta, ma la donna accetta ugualmente pur essendone conscia), e così via. Perfino La moglie e l’amante, il capitolo in cui per sentirsi parte della società trova un’amante giovane, naufraga per la sua inettitudine più che per l’amore sincero nei confronti della moglie.
È quindi un inno alla tristezza, se vogliamo così definirlo? Non proprio, perché nell’epilogo Italo/Zeno spiega che il suo mal di vivere è diventato parte della quotidianità di un ambiente frenetico, e che ogni persona porta il proprio fardello. La nuova normalità può essere anzi motivo di vanto e forza, purché la si accolga e si riescano a vedere i lati positivi.
Il concetto di nuova normalità, tra l’altro, ci riporta al periodo dagli inizi del 2020 in poi, per tutti noi alle prese con il rischio di ammalarsi di Covid, e una lettura del genere può farci capire molte cose su cosa siamo anche adesso. Un motivo in più per riconoscere la grandezza e l’immortalità di Italo Svevo e de La coscienza di Zeno.
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