La sottile differenza tra film su cui pesa il passare del tempo oppure no è labile. Le quattro pellicole di cui vi parliamo, a nostro avviso, non invecchieranno.

di Paolo Merenda

Cosa rende un lavoro cinematografico, di alto profilo o no, capace di superare il tempo e rinnovarsi pur restando immutabile? La domanda è complessa, ma ci pensavo quando, giorni fa, parlavo di The Producers. Questo film ha 16 anni, è ambientato nel 1959, due degli attori che vi compaiono sono morti (tra cui Gary Beach, il protagonista della gaia commedia neonazista, come recita il sottotitolo del lavoro di Susan Stroman) eppure non sembra affatto vecchio. Invece, che so, Il silenzio degli innocenti, Trainspotting e altre cose con un pubblico fedele che non accenna a diminuire, hanno tenuto botta per diverso tempo per poi crollare di schianto al… tempo, appunto. Cosa differisce fra loro? Proviamo a scoprirlo attraverso questa breve carrellata di pellicole sempreverdi.

Fight Club
Girato un uno degli anni d’oro del cinema, il 1999, da David Fincher, regista di sicure doti artistiche, dopo 21 anni è ancora fresco come un giovincello e, a mio avviso, lo sarà fin quando i film a colori verranno soppiantati da quelli interattivi 3D. I riferimenti sono vaghi, la casa in cui Brad Pitt ed Edward Norton vivono è cadente e ha un vecchio telefono, ma questo è tutto quello che contraddistingue i due. Il posto in cui lavora Norton, poi, è essenziale come si reputa che sarà anche in futuro, oltre che nel presente delle grosse aziende. Il linguaggio è spinto senza eccedere, specialmente Helena Bonham Carter si mantiene bene in bilico, e contiene qualche espressione slang per catturare chi sta guardando senza bisogno di caricature. Una miscela che si completa con i tagli di capelli dei personaggi, essenziali e sempre rivolti al futuro a ogni visione della pellicola. È ciò di cui parlo quando dico di come sia possibile rinnovarsi restando immutabile, perché ormai il lavoro è stato lanciato sul mercato e non vi si può metter mano. Ad esempio, fatemi sapere se direste che questa scena è stata girata 22 anni fa.

The Producers
Ho già accennato ad alcuni punti forti di The Producers, diretto da Susan Stroman nel 2005 ma nato da un’idea molto precedente di Mel Brooks, che compare anche qua e là sullo schermo. I colori, e i costumi, sono senza dubbio parte del successo, ma un piccolo aiuto proviene dal genere. Quello comico, difatti, qui con una spruzzata abbondante di musical, si mantiene brioso con maggiore facilità, tranne ovviamente se non vengono prese in giro determinate categorie (per capirci, Benvenuti a sti fr***oni con Lino Banfi). Però con The Producers è stato fatto tutto bene, e inoltre ha un’altra cosa che lo rende sempreverde: l’ambientazione del 1959. I vestiti non possono sembrare vecchi se sono parte del contesto.

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A Beautiful Mind
A Beautiful Mind, datato 2001 e con la regia di Ron Howard, lo stesso che porterà in auge il professor Robert Langdon nato dalla penna di Dan Brown, è solo un esempio di un’intera categoria che non risente del tempo che passa. Parlo dei biopic, che, come The Producers, sono aiutati dal fatto che tutto si svolge in un arco di tempo ben definito, giustificando qualunque scelta del regista. Russell Crowe è il matematico, premio Nobel nel 1994, anno in cui smettiamo di seguirlo. Ma Ron Howard ce lo fa vedere a partire dal 1947, quindi l’occhio del fruitore si accomoda sui cambiamenti nel corso dei decenni accogliendoli senza problemi.

Lo stesso discorso, il descrivere realtà valide in quel momento, e quindi non forzate (troppo) dalle scelte personali, vale per 127 ore (con James Franco), Blackkklansman, Escobar, American Sniper e molti altri. Se determinate vicende si svolgono anni prima, nei biopic non si può far altro che assecondare il flusso.

Il Signore degli anelli
Anche qui, la trilogia (La compagnia dell’anello, Le due torri e Il ritorno del re, girata tra il 2001 e il 2003) è simbolica per tutto un genere, il fantasy e distopico. Peter Jackson, regista dei pluripremiati film, si muove a suo agio nel ricreare un mondo particolareggiato come quello di Tolkien. Forse il suo lavoro è stato maggiore rispetto a quello svolto per Hunger Games, ma il nocciolo resta uguale: non ricreare un quando, ma un dove, che sia eternamente valido e fresco per chi guarda. Un mondo nuovo esula dalle dinamiche della realtà nel momento in cui si gira il film, ma ha regole sue (sempre, va detto, che i creatori abbiano sufficiente “pazzia artistica” da dare un senso a tutto). Grandi foreste deserte o città iperaffollate non sono approcci così diversi, basta “ingannare” l’occhio dello spettatore e fargli credere, per tutta la durata del film, che il tempo non è passato. E, a mio avviso, ci riesce.

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