Nessuno mi vede di Pauline Waugh non è un romanzo anacronistico, ma qualcosa in cui ogni adolescente medio può rivedersi.

Uno dei primi libri da adulti che ho letto nella mia preadolescenza è Nessuno mi vede di Pauline Waugh. L’edizione era proprio quella in foto, dato che i miei erano abbonati al Club degli Editori. L’ho riletto più volte nel corso della mia vita, l’ultima durante uno strano viaggio in treno fino a Trani del quale non ricordo più tantissimo. Credo che però sia giunto il momento di rileggerlo. Questo romanzo mi fa compagnia nei momenti più strani della mia vita, quando mi sento sola, quando, come per la protagonista, «nessuno mi vede».

La storia parla di Matilda, un’adolescente atipica, con il naso sempre affondato nei libri. Il padre di Matilda se n’è andato quando lei era molto piccola e poi è morto, lei ha sempre vissuto con la madre, figlia a sua volta di un terrificante arcigno pastore battista, in un paese dal nome eloquente, Hicksville, letteralmente «città di zoticoni». Hicksville si trova in uno degli Stati del sud degli Usa: siamo nei primi anni ’60, le prediche del reverendo Martin Luther King non hanno trovato qui terreno fertile e gli abitanti sono dei tipi. Razzisti, ma comunque tipi. C’è il bullo della scuola, la ragazza facile conclamata, la bibliotecaria che legge di nascosto romanzi considerati pruriginosi per l’epoca, come Tropico del Cancro oppure L’amante di Lady Chatterley, ci sono gli ammiratori della madre di Matilda, sempre troppo goffi e stupidi. E poi c’è Ainsley, che ha una ferramenta, e che riesce a far breccia nel cuore della vedova allegra. E c’è Leroy, il vicino di casa epilettico che ogni notte stupra Matilda per rifiorire, per sentirsi normale.

È facile immedesimarsi in Matilda, una giovane il cui cuore e cervello sono sempre in contrasto. Matilda lotta tra istinto e ragione, prendendo anche delle pessime decisioni, come quella di mettere lo sgambetto a una coetanea afroamericana e attirandosi le critiche materne. Perché va bene essere razzista, ma non si deve darlo a vedere in questo mondo al rovescio. Matilda è lontana dai suoi compagni di scuola, dai loro rituali che non comprende. La sua solitudine è una sorta di invisibilità, come un alone che la ricopre quando cammina per strada. Anche quando gli altri si accorgono di lei, nessuno la vede veramente. Nessuno sa quello che pensa o quello che ha nel cuore.

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Pauline Waugh accompagna la narrazione a una scrittura piana ricca di riferimenti alla cultura statunitense della prima metà del Novecento. La realtà che descrive è in fermento: l’assassinio del presidente Kennedy arriva anche a Hicksville, ma sembra lontano, in un’altra galassia. In quel microcosmo tutto è autoconservativo, le persone non tornano sui propri passi e anche uno stupro reiterato cerca di trovare una giustificazione, cozzando inevitabilmente con il disgusto del lettore. Anche la cattiveria apparente di Matilda non è che una maschera, dietro cui si cela una persona estremamente fragile.

La capacità di Waugh è nel modo in cui riesce a mostrare quasi il film della sua narrazione. Con la soggettiva di Matilda il lettore vede le storie di Hicksville e in un certo senso le subisce. Come una folle corsa, di notte, con il pancione – frutto dello stupro più crudele – tenuto nascosto fino a quel momento. Perché anche la maschera più tenace può calare, se dall’altra parte c’è qualcuno che riesce a vedere.

Il senso di tanta solitudine, di tanta disperazione, è racchiuso nella chiosa finale.

«So come vivere odiando. Esiste un modo per imparare a vivere amando?»

Questa frase mi ha accompagnato lungo il corso di tutta la mia vita. Ci ho provato. Non so se ci sono mai riuscita completamente.

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