Il duo Morgan Freeman – Tim Robbins, con Frank Darabont alla regia, firmano il successo Le ali della libertà, del 1994.

di Paolo Merenda

Nella prefazione di un suo libro, Stephen King parla di un singolare incontro avuto con una donna mentre era intento in una commissione domestica: lei, pur riconoscendolo, gli disse che le sue storie dell’orrore non erano poetiche, al contrario di film come Le ali della libertà.

Proprio Le ali della libertà, invece, è tratto da un lungo racconto del re del brivido, Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank, contenuto nella raccolta Stagioni diverse del 1982. Una vicenda al tempo atipica per uno scrittore che prediligeva il soprannaturale e i classici mostri nascosti sotto al letto, ma che dopo tanti decenni è diventata parte dell’eclettico mondo di Stephen King.

La trama parte nel 1947, da Andy Dufresne che viene messo in cella per un duplice omicidio, di moglie e amante, che fin all’inizio pare chiaro non abbia commesso. Nella struttura di Shawshank conosce Red, un vecchio detenuto che può procurare oggetti e beni vari, e a cui si affida per avere una parvenza di vita normale e non affondare nelle spire della vita da carcerato. Dopo i primi problemi con un gruppo di detenuti stupratori, “Le sorelle”, comincia a farsi un nome per le sue conoscenze da banchiere, mestiere che faceva da libero, e aiuta diverse guardie con documenti e scartoffie varie.

Il rapporto “lavorativo” con il direttore del carcere, Norton, che si affida a lui per coprire alcune frodi finanziarie, lo porta ad avere una cella tutta sua e la protezione assoluta dalle sorelle e da qualunque rogna possa avere un detenuto. Ed è qui che gli nasce nella mente un piano, coperto da un avvenente scatto fotografico di Rita Hayworth, per evadere.

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L’amicizia tra Andy e Red è la parte che meglio viene descritta nel film Le ali della libertà di Frank Darabont, regista che, dopo questo lavoro, torna a Stephen King con Il miglio verde e The Mist. Andy (Tim Robbins) e Red (Morgan Freeman) sono prima di tutto amici, al di là del fatto che il primo è innocente e il secondo è dentro per un omicidio commesso in gioventù e che forse paga più del dovuto per il colore della pelle. Quando sei in carcere o fai di tutto per vivere, o fai di tutto per morire. Questa è una delle frasi emblematiche che la bravura degli attori (entrambi vincitori di un premio Oscar nell’arco della loro carriera) fa vedere allo spettatore, fa toccare con mano scena dopo scena. Il finale, poetico, non lascia indietro nessuno, dal vecchio Brooks (James Whitmore), un personaggio secondario che strappa una lacrima, al cattivo direttore Norton (Bob Gunton). La chiusura del cerchio nella pellicola è completa, molto più del racconto da cui è tratto, e proprio qui voglio soffermarmi un attimo.

Il racconto ha un finale mezzo aperto e con una pagina di riflessioni quasi liriche, la scelta più adatta per una storia che si sviluppa su carta. Il film invece basa le ultime scene su un Morgan Freeman sorridente e fiducioso nel futuro, e il finale meno fumoso fa parte della fiducia mostrata sullo schermo, che non poteva essere malriposta.

In ogni caso, un lavoro cinematografico che merita di essere visto e rivisto, magari dopo aver letto il racconto.

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