Benché ancorato agli stilemi degli anni ’80, Karate Kid è stato un film rivoluzionario. Ha attinto a piene mani da Rocky, ma in Cobra Kai le cose si fanno più interessanti.
Al momento in cui scrivo, ho appena terminato la visione della quarta stagione di Cobra Kai. Lo ammetto, non sono stata una fan della prima ora, ma ho iniziato a vederla quando la serie è approdata su Netflix. E l’ho fatto per una ragione: volevo capire l’influenza che Barney Stinson ha avuto sulla rivalutazione di Karate Kid e sull’immaginario di quasi due intere generazioni. Scommetto che James Ellroy non avrebbe mai immaginato che dando questo nome a uno spacciatore menzionato in tre righi del suo romanzo L.A. Confidential la faccenda sarebbe diventata così pop.
Cosa mi piace di Cobra Kai? Mi piace soprattutto il modo in cui sono tratteggiati i personaggi. Tutti hanno uno sviluppo e non sono uguali a loro stessi nel bene e nel male, com’era negli anni ’80. Il villain spesso non è solo questo, così come l’eroe fa un sacco di errori di valutazione, di giudizio. L’eroe non ha la verità in tasca, così come il villain forse non è destinato necessariamente a essere lo sconfitto, ma a incontrare piuttosto un dubbio di coscienza, una vocina morale che indica la strada. Non quella giusta, ma quella corretta.
Karate Kid, così come Cobra Kai però, deve molto alla saga di Rocky. Nella quarta stagione della serie tutto diventa molto più consapevole e vediamo il personaggio di Miguel spiegare l’evoluzione dei rapporti tra Rocky Balboa e Apollo Creed, ed è la stessa evoluzione che in qualche modo deve guidare il cambiamento di equilibri tra Johnny Lawrence e Daniel LaRusso.
Non dobbiamo stupirci. Come ci ha insegnato Dawson Leery alla fine degli anni ’90 o giù di lì, Rocky ha rivoluzionato la storia del cinema e il modo di raccontare l’atleta. Se Barton Fink entrava in crisi nello scrivere una sceneggiatura sul wrestling e nella raffigurazione del vincitore a ogni costo, Rocky è una storia che per la prima volta focalizza l’attenzione sul perdente. Perché Rocky è questo, un perdente, anche se a proprio modo è un vincitore.
Nel finale di Karate Kid accade invece che Daniel LaRusso vinca, sebbene, con un buco di trama, attraverso una mossa scorretta per cui dovrebbe essere squalificato, come Barney Stinson rimarca più volte in How I Met Your Mother. Cobra Kai è il rovesciamento di quel finale: con la consapevolezza del buco di trama, Daniel è ormai un ricco imprenditore, mentre Johnny è il perdente rimasto attaccato agli anni ’80 – spesso con esiti comici più che grotteschi.
Anche nel montaggio musicale Karate Kid ricalca Rocky. Gli allenamenti, gli avvicendamenti sul ring o sul tatami, sono accompagnati da un montaggio veloce con una colonna sonora coinvolgente, perché Rocky in questo ha fatto decisamente storia.
Però c’è qualcosa per cui è importante Karate Kid nello scenario del cinema hollywoodiano. Per la prima volta abbiamo infatti un personaggio giapponese con delle connotazioni positive: il maestro Miyagi. In precedenza e per diversi decenni, a causa della propaganda statunitense durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, i giapponesi rappresentavano infatti il male e in questo modo venivano raffigurati da Hollywood. I personaggi asiatici positivi venivano affidati ad attori caucasici con il volto dipinto di giallo (in un procedimento analogo al blackface dei minstrel show), mentre agli attori asiatici non restavano che i personaggi negativi. Miyagi fa invece qualcosa di completamente diverso: è lui il vero eroe, non Daniel che oggi è soggetto a una profonda revisione storica e filosofica.
Dietro a ogni persona c’è una storia. C’è una storia dietro all’eroe e dietro al villain. Ma cosa accade quando i contorni dell’eroe e del villain sono tutt’altro che netti? Se c’è una cosa che le filosofie asiatiche ci hanno insegnato è che non esiste il bene puro, come non esiste il male puro. Le persone sbagliano: c’è una caduta e un’ascesa, c’è l’errore e c’è la nemesi, ci sono i corsi e ricorsi e ci sono padri che provano a ricomporre i loro sbagli attraverso i figli.
Quella di Karate Kid è una storia netta, senza appello. Daniel San è il buono, Johnny Lawrence è il cattivo. Poi si cresce, e come in una riunione tra compagni di scuola ci si scopre cambiati, diversi, memori di quelli che si è stati ma comunque proiettati in un futuro di speranza, la speranza di diventare persone migliori.
È per questo che in Cobra Kai il personaggio di Johnny Lawrence funziona così bene. Perché lui ci prova sempre a fare la cosa giusta, anche se spesso non gli riesce. Ma Johnny, come Daniel, è un’idealista, e anche se non lo sa pure lui gioca in difesa.