Ho letto Bambini con l’etichetta dopo aver incontrato il suo autore Michele Zappella. Perché è un libro che tutti gli insegnanti dovrebbero leggere.

A mia memoria, posso contare i bravi insegnanti che ho avuto sulle dita di una mano. C’è la prof di inglese delle medie, poi al liceo direi gli insegnanti di fisica e storia (in quest’ultimo caso sia della seconda che del triennio). E poi forse basta così. Molti dei miei compagni del liceo sono diventati grandi professionisti, in barba al punto di partenza, con le sole proprie forze. A quelli delle medie è andata peggio, forse perché chi aveva composto le classi aveva messo su una corte dei miracoli, cercando di tenere lontani dagli occhi il più possibile quegli elementi che per famiglia d’origine, presunto profitto o disabilità erano ritenuti “contaminanti” per la società di domani. Sembrava quasi la classe di Woody Allen in Io e Annie. Pessimi insegnanti per ragazzini che si affacciavano alla vita e forse avevano bisogno di essere capiti, non giudicati.

Purtroppo uno di loro, dei miei compagni, è morto, da solo, con il solo conforto della famiglia, così come è vissuto. Era nato il mio stesso giorno, aveva una trascurabile disabilità fisica ma fu escluso, credo, per il suo retroterra culturale, per la sua famiglia. Da quella classe però non fu il solo escluso. C’erano anche altri ragazzini, cui è andata meglio (si sono diplomati, hanno trovato lavoro, hanno trovato l’anima gemella, hanno dei figli), ma solo perché all’interno della loro famiglia, nella cerchia ristretta o allargata, sono riusciti a trovare qualcuno che comprendesse, che andasse al di là, che fornisse loro l’aiuto che meritavano.

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Quando mio figlio è stato abbastanza grande da andare a scuola, mi sono scontrata con una realtà da cui mi ero nascosta finora. Non vi sto a raccontare i dettagli: vi basti sapere che ha vissuto e sta vivendo un’esperienza scolastica che si basa esclusivamente sulla buona volontà (o sulla cattiva coscienza) degli insegnanti. Non avrei mai creduto che un giorno mi sarei schierata a favore delle scuole private, ma quel giorno è arrivato: negli istituti paritari che ha frequentato e sta frequentando, pur coi limiti del caso, ho trovato più apertura mentale, più voglia di mettersi in discussione, anche se tutta la verità non l’ho raccontata a loro.

La verità è che mio figlio è un bambino plusdotato. Nella scuola italiana è come se avesse una disabilità, e come disabilità è stata scambiata per troppi anni. Già a 3 anni aveva un quoziente intellettivo molto alto. Non so se lo dirò mai ai suoi insegnanti, anche se una in particolare pare abbia capito, l’insegnante di musica: in una società che premia la mediocrità e trascura tutti gli altri, non so se farei il suo bene a dirlo.

E se questo accade a lui, pensate cosa accade a chi è neurodiverso o neuroatipico. Da quello che arriva dalla mia cerchia di amicizie, in cui c’è più di un figlio neurodiverso, scopro una cosa, che poi ho ritrovato nel libro di Michele ZappellaBambini con l’etichetta: la scuola italiana funziona per una sola ragione, ovvero per quegli insegnanti illuminati che fanno ben più del loro dovere. Ce ne sono molti, anche se a volte ci sembra siano pochi. È che sono un segmento silenzioso, ma io sono grata che esistano.

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Tornando al libro di Zappella, che poi è la ragione per cui sto scrivendo questo pezzo, l’ho trovato davvero molto interessante. Lui traccia una linea temporale, mostrando come la diversità sia emarginata all’interno dell’istituzione scolastica e come questo non sia in effetti una caratteristica solo italiana. Parla infatti di come i figli dei migranti italiani venivano trattati in Germania, Svizzera e Francia, dove il fatto di non essere madrelingua diveniva un marchio, un’etichetta.

È la stessa cosa che accade, dimentichi del passato, in Italia oggi. In cui la diversità, qualunque essa sia è appiattita, omologata. Nello studio del professor Zappella sono passati tanti di questi casi: neurodiversità che sono state confuse con altre condizioni, bullismo subito che diventava disabilità agli occhi della società, famiglie che di fronte a una diagnosi si tranquillizzano, anche se poi finiscono per scoprire che quella diagnosi era completamente errata, inesistente. Il neuropsichiatra annota sul suo volume alcuni di questi casi emblematici, ci porta nelle famiglie. E vi confesso che non ho avuto difficoltà a identificarmi nella sua narrazione. Per quello che è la mia percezione, quasi in ogni famiglia che conosco c’è almeno un caso di dislessia, autismo, sindrome di Tourette, disturbi dell’attenzione o altro. Certo, oggi queste condizioni si conoscono molto più che in passato, ma le diagnosi appaiono davvero troppe.

Credo che questo libro dovrebbe essere letto da tutti gli insegnanti, soprattutto da quelli che non riescono a comprendere, a immedesimarsi nella questione. Forse li aiuterebbe ad andare oltre, a non trattare questo tipo di tematiche superficialmente, a non eseguire diagnosi per cui non sono titolati, e soprattutto a non escludere i bambini. Quei bambini esclusi diverranno adulti esclusi. Tranne se tutti noi non ci adoperiamo per rompere il circolo vizioso.

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2 commenti

  1. Grazie della condivisione, lo leggerò. Ti scrivo solo quel che dico in classe quando spiego Leonardo da Vinci: se fosse nato oggi, già a 3 anni sarebbe stato portato da neuropsichiatri, logopedisti, psicomotricisti ecc.., batteria completa; avrebbe avuto il docente di sostegno a scuola e sarebbe stato bullizzato. Figuriamoci, scriveva al contrario! segno certo di disagio per una società normalizzante come la nostra! Invec lui a 3 anni guardava le nuovle passare nel cielo, ore e ore in silenzio, perchè cercava di capire il modo in cui i venti soffiavano…onore al Rinascimento!

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