Una serie potente, sulla femminilità, sulla distopia e sulla storia: perché The Handmaid’s Tale è la miglior serie al momento in circolazione.

«La colpa è loro. Non dovevano darci un’uniforme se non volevano che diventassimo un esercito.»

Una ragazza entra in un furgone con i vetri oscurati. In sottofondo parte American Girl di Tom Petty. Non è Il silenzio degli innocenti – anche se il parallelismo è innegabile – ma The Handmaid’s Tale. La serie, prodotta da Hulu, è arrivata alla sua quarta stagione e i fan sono in trepida attesa delle nuove puntate che potrebbero essere quelle conclusive. Quando usciranno? Al momento non c’è una data di uscita: la protagonista Elisabeth Moss, che nella quarta stagione sarà anche regista di uno o più episodi, ha annunciato su Instagram lo stop della serie a causa del coronavirus con una foto di grande potenza ed eloquenza.

The Handmaid’s Tale è la più grande distopia che letteratura e televisione insieme abbiano prodotto in questi anni. E sì che è il tema fondante più utilizzato, da Snowpiercer a Hunger Games.  Ma perché questa serie è così speciale?

Nella storia, gli Stati Uniti sono diventati, dopo un colpo di stato paramilitare, la repubblica di Gilead. Non si tratta però di una repubblica ma di un’oligarchia a tutti gli effetti, con una società rigidamente strutturata. Da un lato ci sono gli uomini, dall’altra le donne. Gli uomini sono suddivisi in comandanti, che sono al vertice della piramide, occhi (cioè i servizi segreti interni) e guardiani (militari preposti all’ordine pubblico). Le donne sono invece divise in signore (le mogli dei comandanti, il cui potere è solo apparente), marte (cioè una versione schiavizzata delle colf), zie (che si occupano della disciplina e della sicurezza delle ancelle), e ancelle, le sole ragazze fertili che subiscono mensilmente stupri rituali, poiché sono obbligate a fare da madre surrogate ai comandanti e alle loro mogli.

La fertilità è infatti al minimo storico, a causa dell’inquinamento. La zona più inquinata del Paese sono le colonie, dove sono stati inviati tutti i dissidenti politici, i medici, gli omosessuali, i professori universitari. Almeno quelli che sono ancora in vita, che non sono stati uccisi e appesi al muro. Queste persone sono obbligate a risanare l’irrisanabile ambiente delle colonie. C’è ancora un quarto stato, che si occupa della produzione: operai che lavorano in fabbriche, panifici, lavanderie industriali, uomini e donne che hanno però giurato fedeltà a Gilead restando di fatto schiavi di un regime ma organici a esso.

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La trama racconta la vita di un’ancella, Offred, che poi diventa Ofjoseph (con il patronimico che indica il possesso del comandante sull’ancella). Un tempo si chiamava June, era una responsabile editoriale. Nella vita di prima si è innamorata di Luke, un uomo sposato che ha lasciato la moglie e si è risposato con lei, dando alla luce la piccola Hannah. La famiglia, nel primo episodio viene braccata dai guardiani: June, separata dal marito, sente gli spari e lo crede morto, e viene avviata al Centro Rosso, dove le verrà impiantato un chip per la localizzazione, e le verrà sottratta Hannah. Viene “ospitata” inizialmente dai Waterford, per dare un figlio a Serena.

Ci sono in realtà quattro ancelle che sono fondamentali per la storia: June (interpretata da Elisabeth Moss, la Peggy di Mad Men) che è la protagonista; Moira (Samira Wiley), che è la sua migliore amica, è lesbica e finisce inizialmente nella Jezebel, il bordello personale dei comandanti, per poi riuscire a fuggire in Canada, dove si trova Luke dopo molte peripezie; Emily (Alexis Bledel, la Rori di Una mamma per amica), anche lei lesbica, docente universitaria in attesa di posto di ruolo obbligata a fare l’ancella mentre la moglie e il figlio sono riusciti ad andare in Canada, essendo cittadini canadesi; Janine (Madeline Brewer), cui è stato cavato un occhio per insubordinazione al Punto Rosso e che sviluppa un attaccamento morboso (anche se normalissimo) per la bambina che ha dato alla luce, alla quale prima attenta alla vita e poi la salva. Tra le varie vicissitudini, Emily tenta di fuggire più volte: le viene asportato il clitoride dopo essere stata scoperta in una relazione con una marta. Ruba un’auto, investe un guardiano e viene spedita alle colonie, dove uccide un’ex signora. Rimandata a Gilead dopo un attentato che ha sterminato molte ancelle, viene fatta fuggire da Joseph, il suo comandante che la stima, e riesce a giungere in Canada con la bambina che June non ha avuto Fred Waterford, bensì da Nick, un occhio che però è una mente oscura di Gilead, nonostante lui abbia avuto Eden come moglie imposta. Anche Janine finisce alle colonie, dopo che le altre ancelle si rifiutano di lapidarla, ma anche lei torna a Gilead con Emily.

In passato ho avuto una teoria: se muori in Orange Is the New Black, entri nel cast di The Handmaid’s Tale. È accaduto in primis a Samira Wiley e Madeline Brewer, poi a Emily Althaus, che è stata guest star nella backstory di Zia Lydia (la mitologica Ann Dowd).

Quanto a June, nell’ultima stagione diventa una sorta di Che Guevara di Gilead, e organizza una mega fuga di bambini – trafugati alle famiglie naturali in una vicenda che ricorda quella delle madri di Plaza de Mayo – in Canada insieme a Rita, la marta dei Waterford, anche se non riesce a recuperare Hannah. I Waterford invece finiscono anche loro in Canada, in attesa di processo come criminali di guerra e per lo stupro reiterato di June.

Le cose più orribili e simboliche si susseguono sullo schermo: l’abbraccio di Emily con la moglie e il figlio prima dell’addio, il momento in cui Moira scopre che la sua ragazza, un medico, è stata uccisa, l’esecuzione di Eden, che ha tradito Nick con un guardiano, la statua di Lincoln distrutta, simbolo dell’uguaglianza e della democrazia spazzate via, le ancelle di Washington, che hanno degli anelli a chiudere le loro bocche, il trasporto delle ancelle, tra cui June e Janine, su carri di bestiame, che ricorda la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio.

Ma al tempo stesso, ci sono per lo spettatore dei momenti di sollievo, come l’abbraccio tra Moira e Luke che si ritrovano in Canada o il momento in cui le ancelle decidono di rivelare l’un l’altra i loro veri nomi.

Una cosa interessante. Ancelle, signore, marte, zie. Indossano tutte una sorta di uniforme. Marrone per le zie, grigia per le marte, verde per le signore e rossa per le ancelle. Esteriormente sono tutte uguali a loro stesse, ma esiste al loro interno un interessante sviluppo del personaggio. Le donne sono al centro di una vicenda in cui non sono padrone neppure dei loro corpi. Se sono scoperte a leggere, viene tagliato loro un dito, cosa che accade perfino a Serena, eminenza grigia della creazione di Gilead che si ritrova all’improvviso senza alcuna voce in capitolo. 

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Cosa accadrà nella prossima stagione? È difficile dirlo. Secondo me potrebbe essere l’ultima e sono combattuta nel dire se mi piacerebbe o meno. The Handmaid’s Tale è una serie che mi provoca un dolore fisico: violenze e soprusi di genere mi fanno immaginare come potrebbe essere. Non so cosa proverei se mi fosse strappata una figlia, se fossi obbligata a essere stuprata, se non potessi più leggere, se non potessi più parlare.

Negli Stati Uniti, la serie arriva in un momento particolare, in cui il conservatorismo ha raggiunto livelli mai visti prima. L’oligarchia di Gilead è ammantata di religione ma è anche e soprattutto extrareligiosa. Si cita continuamente la Bibbia, ma si perpetrano i peggiori peccati e gli uomini non temono il giudizio di Dio, né quello dei cristiani, né quello degli ebrei, né quello dei musulmani. Anzi la religione organizzata è scoraggiata perché la religione non è solo oppio dei popoli, è soprattutto consapevolezza e in alcuni casi speranza nel futuro.

Un discorso speciale va fatto sulla colonna sonora. The Handmaid’s Tale è una serie silenziosa, con composizioni strumentali originali. Ma di tanto in tanto fa capolino la musica, la musica “di prima”, quella pop, quella piena di ritmo, che cova nei cuori delle ancelle che desiderano cambiare le cose.

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