Tra i film ambientati nel periodo della guerra in Vietnam, Good morning Vietman è senz’altro tra i più notevoli, grazie anche al suo protagonista, Robin Williams.
di Paolo Merenda
La cinematografia, specialmente quella americana, si è sbizzarrita con pellicole sulla guerra del Vietnam: da Forrest Gump, passando da Il cacciatore ad Apocalypse Now, ispirato al romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad, tanto per citarne tre dei più premiati (13 premi Oscar e 7 Golden Globe sommando i riconoscimenti). Ma, anche se meno premiati, non sono meno belli Full Metal Jacket di Stanley Kubrick o Good Morning Vietnam. Proprio quest’ultima pellicola ha dato un punto di vista diverso, unico, sulla guerra tra americani e vietnamiti.
Se gli altri lavori hanno puntato su un cast corale, o su azioni di guerra in cui il cameratismo veniva tratteggiato con una vena poetica di indubbio spessore, Good Morning Vietnam, film del 1987 di Barry Levinson, lo fa con un piglio molto più ironico. Merito del protagonista, Robin Williams, che esattamente sei anni fa ci ha lasciati.
Adrian Cronauer, personaggio realmente esistito e che ha dato spunto per la realizzazione del film, nel lavoro di Levinson è uno speaker radiofonico, già aviere, che viene mandato nella zona di guerra per risollevare il morale alle truppe. La sua verve gli mette subito contro due superiori, il sergente maggiore e il tenente, ma trova un apprezzamento pressoché unanime tra i soldati, che attendono ogni giorno il suo saluto,
«Gooood morning, Vietnam!»
La guerra resta tale, tra missioni pericolose e attentati mortali della/alla popolazione di Saigon, ma, e questa è una delle chiavi di lettura del film, ciò che conta non è l’esperienza che si vive, ma come la si vive. L’essere positivi, aspetto che lo stesso Williams avrebbe sviluppato meglio due anni dopo, ne L’attimo fuggente, non solo rende meno grave la propria situazione, ma la migliora perché ci si focalizza sul modo per superare le difficoltà, piuttosto che rimanere fermi ad autocommiserarsi.
Non a caso, rispetto ad altre pellicole sull’argomento, Good Morning Vietnam termina in maniera tutto sommato positiva, con un messaggio di speranza dello speaker Cronauer alle truppe ancora presenti a Saigon.
In quest’ottica, il brio che Robin Williams aveva sullo schermo e nella vita reale, rende meno amaro il suo suicidio: anche quella è stata una scelta per preservare il ricordo, dato che gli era stata diagnosticata una malattia neurodegenerativa che non aveva cure. Associo la sua fine a quella dell’italiano Mario Monicelli, suicida a 95 anni mentre era malato terminale: in entrambi i casi, hanno semplicemente scelto come andarsene, una sorta di eutanasia prima che venisse applicata, seppur in pochi paesi. Una frase di Monicelli sul padre, anch’egli suicida, riassume la sua posizione e quella di Williams:
«La vita non è sempre degna di essere vissuta: se smette di essere vera e dignitosa non ne vale la pena.»
E quindi, onore a Robin Williams, che ha vissuto come voleva, ci ha fatto ridere, riflettere, commuovere, e che se n’è andato alle sue condizioni.