Su Netflix c’è un classico moderno dell’horror, Il Cubo di Vincenzo Natali.
di Paolo Merenda
Spesso, in alcuni giochini da social network, bisogna indicare il libro, la canzone o il film preferito. Ecco, io non li faccio, ma se li facessi sarei molto in difficoltà, perché non ho un preferito assoluto e inamovibile. Perfino nella casella attore preferito non so scegliere tra Sylvester Stallone, Christian Bale, Brad Pitt (premio Oscar per C’era una volta a Hollywood) e chissà quanti altri. Ma potrei indicare una rosa di preferiti tra canzoni, libri e altro. Nella rosa di film, tra gli altri staziona sempre Il Cubo, per la regia di Vincenzo Natali, italo-canadese di cui il film del 1997 è l’opera prima.
Particolarissimo e per certi versi associato per i temi trattati al più recente Il Buco, pellicola Netflix (e altra opera prima) con cui ha in comune anche la vittoria in numerosi festival del cinema cosiddetto minore, è stato girato in Canada con attori canadesi, tranne un’unica eccezione, David Hewlett, di nazionalità inglese (perfino la comparsa iniziale, Alderson, è interpretata da Julian Richings, canadese), e per realizzarlo è bastato un solo cubo di 14 piedi per lato, a cui veniva cambiato il colore dei pannelli a seconda della “stanza” in cui ci si trovava. Ma di cosa parla?
Ebbene, restando alla trama, l’agente McNeil (Maurice Dean Wint), la dottoressa Holloway (Nicky Guadagni), la studentessa di matematica Leaven (Nicole de Boer), l’esperto in evasioni “Scricciolo” Rennes (Wayne Robson), l’architetto Worth (David Hewlett, l’unico non canadese) e Kazan (Andrew Miller), un ragazzo autistico, si risvegliano in una struttura formata da migliaia di cubi che si muovono seguendo una complicatissima equazione matematica (più di 17.000), senza ricordare come ci siano arrivati. Man mano che capiscono come muoversi per evitare le trappole mortali presenti in alcune stanze, incorrendo purtroppo in errori che costeranno la vita a uno di loro, si avvicinano all’unica stanza cubica che li porterà all’uscita.
Il centro di tutto è la natura umana, di cui ogni personaggio rappresenta una sfaccettatura. Niente è lasciato al caso: dal poliziotto che mostra man mano la sua natura violenta, al fatalista Worth, all’innocente ma preziosa, per l’evasione dal cubo, studentessa, a tutti gli altri. Cosa accadrebbe se tutte queste persone venissero messe in un sistema ad alta, altissima tensione? La risposta è ovviamente nel film, anche nel modo in cui viene visto il ragazzo autistico, che alcuni vogliono lasciare indietro perché è un peso, fin quando le sue doti si dimostrano complementari a quelle della studentessa per riconoscere le trappole e capire dov’è l’uscita.
Il finale, che non scriverò qui in caso abbiate deciso di vedere il film, è un altro tassello fondamentale, perfetto nell’esecuzione. Si fa un passo avanti nello studio del regista Vincenzo Natali sulla natura umana, con la possibile risposta alla domanda «what if» che serpeggia lungo tutta la pellicola. Un finale, se vogliamo, positivo, ma agrodolce, come spesso ci viene offerto dalla vita stessa, e che si incastra con tutto il resto.
Ultima nota positivissima, il fatto che non ci sia un prima o un dopo, nemmeno quasi nei ricordi. Tutto ciò che esiste è il cubo, ed esiste nell’adesso del film. Non a caso i due sequel (in realtà il terzo della trilogia è un prequel), in cui hanno cercato di spiegare troppo, hanno avuto meno presa sul pubblico.
Lo stesso Natali, che dal 1997 non si è mai fermato, nonostante non sia un simbolo di prolificità, nel 2019 ha lavorato a Nell’erba alta, tratto dal racconto di Stephen King e suo figlio Joe Hill. Un incrocio tra due delle mie passioni che val la pena di esser visto.
Ah, già, ora che ci penso nel giochino da social network sulle cose preferite una casella la riempirei facilmente: quella dello scrittore, con il Re del brivido che resta insuperabile.