Due terzetti conosciutissimi al grande pubblico, di cui solo Enrico Montesano ancora in vita, hanno dato vita a gag indimenticabili con al centro le banconote da diecimila lire.

di Paolo Merenda

La storia delle banconote è nata quasi per caso. Oddio, totalmente per caso proprio no, c’è stata un’intuizione iniziale che si è rivelata esatta, ma forse coloro che hanno assistito alla loro creazione non si sarebbero immaginati cosa avrebbe significato oggi il denaro.

Già nell’anno 806 d.C. furono stampati i primi titoli cartacei, per un motivo ben preciso: a quei tempi era poco saggio trasportare con le carovane i propri averi in oro o argento, sia per il peso che dovevano sopportare i cavalli, sia per il forte rischio di rapine durante il viaggio. E in questo giro entrarono i banchieri: si lasciavano i metalli preziosi e si riceveva in cambio una cosa che oggi chiameremmo assegno. Questo assegno, facile da distruggere in caso di pericoli, veniva trasportato dal possessore dei beni in altro luogo dove lo stesso portava a termine l’affare. Gli impiegati della banca si occupavano di trasferire l’oro o l’argento a destinazione, assicurandone il valore, e la persona che aveva in mano il buono a transazione conclusa andava a ritirare i metalli preziosi. Tutto chiaro finora?

Bene. Nell’arco di poco tempo, però, i fogli firmati dai banchieri assunsero un grosso valore fiduciario, tanto che ad affare chiuso poche persone li scambiavano di nuovo con l’oro, ma li facevano girare nuovamente. I banchieri cominciarono già allora, tra l’altro, a stampare titoli per un valore maggiore rispetto all’oro che possedevano nella cassaforte, perché una seconda intuizione fu di fare prestiti di metalli preziosi ad altri che volevano affrontare spese di qualche tipo. E se l’uomo ha dovuto attendere il 1300 per dare ai titoli il nome di banconote, da “nota di banco”, ovvero nota per ritirare metalli preziosi al banco, arrivati a questo punto avevano ormai soppiantato i sacchi di pepite appena pescate nel fiume.

Storia affascinante, che ci porta all’uso del denaro nel cinema, da scene iconiche con soldi gettati al vento, letti colmi di banconote, valigette con un malloppo considerevole da rubare e così via. In Italia non ci siamo fatti mancare pellicole con i soldi al centro delle vicende, come La banda degli onesti del 1956, con Totò, Peppino De Filippo e Giacomo Furia, tutti passati a miglior vita, o Febbre da cavallo, 1976, con Gigi Proietti, Enrico Montesano e Francesco De Rosa, di cui il solo Montesano è ancora fra noi, dopo la dipartita dello scorso anno di Gigi Proietti.

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Questi due film hanno tra l’altro una curiosità che li accomuna: in entrambi i casi le banconote sono da diecimila lire. Io da piccolo utilizzavo quelle con Alessandro Volta, ma il taglio ha avuto quattro varianti sin dal suo esordio nel 1948. La prima versione, con Dante Alighieri, è stata anche la più grande, quasi 25 x 12,5 centimetri (contro i 13 x 7 centimetri della penultima, 1977-1984, con un quadro di Andrea Del Castagno che ritrae Niccolò Machiavelli, e dell’ultima, con Volta, soppiantata solo dall’euro). Ma, fino al 1963, ha circolato, tanto da essere la banconota che i falsari de La banda degli onesti smerciano dopo averla prodotta in una piccola tipografia. Oltre ai fogli come tanti vestiti stesi al sole, come non ricordare la scena in cui un timoroso Totò testa la qualità del prodotto con un acquisto strategico in tabaccheria?

In Febbre da cavallo, diecimila lire è la classica scommessa dei tre perdigiorno, che effettuano fra l’altro a Napoli, all’ippodromo di Agnano. Soldi che invariabilmente perdono, mettendosi nei guai per l’ennesima volta. Se ci fate caso, la banconota dei tre amici non è gigantesca, infatti dal 1963 al 1977 in vigore c’era la versione con Machiavelli, di 16 x 8 centimetri. A loro bastava tanto per ballare il can can, e anche il mambo.

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